
Il basket NBA non poteva fare a meno così a lungo dei Lakers.
E gli Dei del basket hanno scelto la stagione più incredibile, il palcoscenico più surreale, il momento più tragico della storia giallo-viola: dentro quell’anello c’è lo schianto di Bryant, la stagione mutilata dal lockdown, il silenzio irreale dei palazzetti senza pubblico.
E anche il sospiro dell’ineluttabile, come negli antichi manieri quando senti di poter scorgere il fantasma da un momento all’altro.
Dovevano vincere i Lakers, perché erano i più forti e perché hanno dato sempre la sensazione di giocare in sei, in sette se oltre al “24” ci mettete la strabordante presenza scenica di LeBron, il gigante con il “23”.
Il Re è morto, viva il Re.
MVP delle Finals, tre titoli con tre squadre diverse, il peso specifico dell’Iridio, James è riuscito nell’impresa di ricordare al mondo Kobe nel migliore dei modi: con l’esempio, con i canestri, con la tigna del caposquadra. Applausi per i Lakers redivivi, tornati sulla vetta del pianeta per la gioia degli esteti della palla a spicchi.
La maglia che fu di Chamberlain, di Magic, di Kareem Abdul Jabbar, di Kobe, di LeBron, la maglia che trasuda storia e pallacanestro nella parata più silenziosa e carica di pathos della storia di questo sport. Era destino.
A volte cinico e baro, a volte esaltante come la carezza delicata dell’angelo con la maglia numero 24.
Paolo Di Caro