RUGBY: CINQUE ANNI SENZA LOMU.

Sbucò dal televisore come una saetta, una tempesta perfetta, una marea inarrestabile.
‘Bravino’ questo rugbista “tutto nero”, pensammo, impossibile da fermare e monumento alla forza fisica e alla potenza pura: agile come un gatto, abile a muoversi a destra e a sinistra per seminare avversari come birilli, travolgerli, irriderli con l’eleganza di chi non può conoscere ostacoli.
Un gigante, Jonah. Sempre sorridente, un gigante bambino devastante per gli avversari tanto quanto protettivo per i compagni di squadra.
Un gigante quando da malato grave cercò sempre nel rugby, ancora nel rugby, pur fisicamente provato e cambiato, redenzione e conforto: un campione “totale” che non aveva paura di presentarsi sul campo imbolsito e gonfio, perché un rugbista nasce nel fango e nella polvere, lo trovi in mischia a lottare e non ha tempo di pensare a cipria e cerone.
Neppure quando hai un appuntamento non richiesto con la Grande Consolatrice.
Jonah Lomu è stato lo spartiacque fra due concezioni di rugby e la sua sagoma da guerriero è rimasta scolpita lì, indelebile, su ogni campo che ha calcato.
Impossibile da dimenticare, impossibile da placcare.
Per lui la Nuova Zelanda intonò cinque anni fa l’ultima “haka”: ma ogni rugbista, ogni semplice appassionato, ogni uomo di sport sa che ci sono storie che non smetteranno mai di essere raccontate.
“Ka mate, ka mate!” “Ka ora, ka ora! Tenei te tangata puhuruhuru nana nei i tiki mai whakawhiti te ra!”
(Io muoio, io muoio!” “Io vivo! Io vivo! Questo è l’uomo peloso che ha persuaso il Sole e l’ha convinto a splendere di nuovo!”)

Paolo Di Caro

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