Il senso di Kobe per il basket

Abbiamo aspettato la sera per parlare di Kobe, perché è l’ora della malinconia, dei ricordi che affiorano e dei silenzi che sembrano infiniti.

Accendiamo la televisione sperando di vedere la sua faccia sorridente apparire dal tunnel, anche quando sul parquet c’è Toronto contro i Nets; perché Kobe è stato pallacanestro pura, un apolide della scienza cestistica, un dispensatore di sapienza a spicchi, con incollata addosso la maglia dei Lakers. Col 24.

Kobe non percorrerà più quel tunnel, neanche da spettatore, perché un anno fa ha deciso di lasciare il mondo orfano della bellezza, e lo ha fatto in maniera tragicamente spettacolare, come spettacolare è stata la sua esistenza fuori e dentro il campo.

33643 punti in carriera sono niente nelle statistiche del Black Mamba innamorato dell’Italia: per lui parlava la bellezza del gesto atletico e i canestri impossibili, il tiro in sospensione cadendo indietro, la facilità mostruosa con la quale faceva le cose più difficili.

Nel circo d’eccellenza del basket USA Kobe era un mattatore assoluto e a distanza di un anno sembra che quel maledetto elicottero sia caduto ieri: scorrono le lacrime nel pensare che non ci sia più, copiose come quelle di un addio difficile da digerire.

Un anno senza Bryant, un anno senza pubblico nei palazzetti, un anno di Covid, un anno di “bolla” per non fermare lo spettacolo.

Sembra un caso, ma forse gli Dei del basket hanno semplicemente deciso che il pubblico dovesse varcare la soglia di un palazzetto solo per lui, l’ultima volta, per quel 24 in canotta giallo-viola che ha fatto impazzire il mondo.

Il basket si è preso una pausa, un anno sabbatico, per riprendersi e metabolizzare.

I palazzetti sono vuoti, il tifo virtuale, le partite surreali: e Kobe è lì, in ogni metro quadrato di un parquet del mondo, per ricordare a tutti che lui, insieme a Jordan, a Magic, a Bird, ad Abdul Jabbar e a pochi altri eletti, questo sport lo ha solo inventato.

E scusate se è poco.

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