Caruso, il gesto da campione

Cosa significa essere un campione? Non giriamoci troppo attorno, Damiano Caruso, una vita da gregario, ha compiuto l’impresa della vita, vincendo la ventesima tappa del Giro, tagliando per primo il traguardo sull’Alpe Motta.

Già la vittoria in se varrebbe quel valore che è giusto dare a imprese del genere, in tappe del genere. Eppure il momento è un altro. Non le braccia alzate al cielo, ma un braccio alzato e appoggiato per ringraziare. Vincere e farlo da campione.

Una pacca sulla spalla, quella di Damiano Caruso a Pello Bilbao quando mancavano sei chilometri e mezzo all’arrivo. Lo spagnolo aveva guidato il siciliano giù dal Passo del San Bernardino, aveva tracciato la via buona, quella più veloce, su a risalir il Passo dello Spluga e poi ancora a scendere verso Campodolcino, lì dove la strada ripuntava ala cielo. Ha provato a farlo anche verso l’Alpe di Motta, ce l’ha fatta per qualche centinaio di metri appena, poi si è scansato dalla prima posizione degli avanguardisti. Abbastanza, anzi tanto. Damiano Caruso ha omaggiato tutto questo con quel gesto, poi ha fatto da lui.

Perché è vero, il ciclismo è lo sport individuale dove la squadra conta più di tutti. A vincere è stato Caruso, ma con lui Bilbao e con loro tutta la squadra. Sa cosa vuol dire Caruso, per anni al posto del gregario oggi vittorioso con le braccia al cielo, con la stessa leggerezza di chi non aveva nulla da perdere ma con tutto da guadagnare. Soprattutto nell’essere uomo e sportivo. Una lezione per tutti.

Carlo Galati

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