
Per i credenti dello sport esistono delle cattedrali laiche che hanno nel proprio essere la sacralità di ciò che rappresentano, infondono quella magia, regalano il sogno e ci ricordano perché nello sport affondano le radici dell’anima che si declinano come passioni.
San Siro è indubbiamente uno di quei luoghi. Incantevole, da lasciare senza fiato nelle notti buie di Coppa Campioni (saremo retrò ma permetteteci di chiamarla ancora così), infonde il fascino che Roberto Vecchioni, cantore e poeta milanese, seppe descrivere in alcuni dei versi che hanno dato concretezza terrena all’etereo.
Non importa chi giochi, non importa il tifo o l’appartenenza ad una delle squadra in campo. In alcuni frangenti non è importato neanche quale sport; non di solo calcio ha emozionato San Siro, non soltanto quel pubblico o quegli atleti. Abbiamo ancora negli occhi l’emozione degli All Blacks, che di stadi nella loro gloriosa storia sportiva ne hanno visti e calcati, impressionarsi di fronte agli 80mila, a quei quattro torrioni che racchiudono il racconto dello sport.
Ed è qui, tra questi gradoni che ci si gode quell’atmosfera, respirando a pieni polmoni l’aria di festa del più grande rito laico del mondo che trova in questo luogo la propria esaltazione morale, refugium peccatorum dell’ordinario.
Luci a San Siro di quella sera
che c’è di strano siamo stati tutti là
ricordi il gioco dentro la nebbia
tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là
ma stai barando, tu stai gridando
così non vale è troppo facile così
trovarti, amarti, giocare il tempo
sull’erba morta con il freddo che fa qui.
Carlo Galati