L’Italia del rugby alla pari coi maestri francesi.
A un passo dal toccare il cielo con un dito.
Anzi, a una meta da una vittoria che sarebbe stata persino meritata contro i “galletti” francesi, una delle Nazionali più forti del mondo e candidata alla vittoria nella prossima rassegna iridata.
Dopo la sbornia dei test-match tutti aspettavano al varco gli uomini di Crowley, per capire se i progressi visti fossero la conferma di una mentalità differente e di una consapevolezza nuova o l’ennesimo fuoco di paglia.
E oggi abbiamo visto tutto: due errori di Varney, costati carissimi, assorbiti dalla squadra, brava a ripartire subito con una prestazione corale che dal minuto venticinque del primo tempo è apparsa a tratti straripante, soprattutto se parametrata alla forza e all’esperienza degli avversari.
Precisi sui punti d’incontro e bravi ad esplorare gli spazi, abbiamo un po’ sofferto la fisicità francese, oltre alla loro maggiore dimestichezza nel gestire i momenti cruciali delle partite.
Un secondo tempo punto a punto, con un finale vietato ai deboli di cuore, in quei minuti che in passato ci “regalavano” il crollo fisico degli Azzurri.
E invece abbiamo finito lì, sui cinque metri, a pochi centimetri dalla definitiva consacrazione al livello top del rugby mondiale, centrando anche il punto di bonus.
Ancora qualche ritocco, maggiore precisione e una mediana meno “svagata” e questa Italia, come successo oggi contro i transalpini, potrà giocarsela per vincere.
Il paradiso rugbistico è qui, finalmente a portata di ovale.
L’addio di Sinisa suonava già come un triste presagio.
La generazione di fenomeni passati dal miracolo blucerchiato, i ragazzi terribili capaci di parlare e lanciare messaggi anche fuori dal campo, si sono ritrovati persino a combattere contro un nemico comune.
E hanno perso, dopo aver lottato strenuamente, a testa alta, con l’orgoglio di chi ha fatto del sudore e del sacrificio una ragione di vita.
Gianluca Vialli aveva fatto della propria vita un capolavoro, passando dal campo alla panchina, per approdare alla dirigenza calcistica, restando uomo di campo, dispensatore di consigli, uomo vero in un mondo del calcio pieno zeppo di maschere e banalità.
Il grande male lo aveva reso più saggio, consapevole del suo ruolo di uomo pubblico e di quanto la sua esperienza potesse diventare un esempio su come affrontare l’appuntamento con una morte quasi certa.
Lo ha fatto con orgoglio e con una profondissima dignità, facendoci commuovere con quell’abbraccio londinese a Roberto, fratello di gol e scorribande, di professione allenatore degli Azzurri.
Piangeva, Gianluca.
Piangeva perché sapeva che quella gioia sarebbe potuta essere una delle ultime di una carriera che lo ha visto alzare tutte le Coppe delle competizioni UEFA.
Ci piace pensare che adesso invece sorrida, in quel fazzoletto di Cielo color diamante che accoglie anche Sinisa e Pelé: un grande centrocampo, un attacco atomico.
Edson Arantes do Nascimento è volato in cielo, lasciando un vuoto incolmabile in quell’Olimpo degli dèi del calcio al quale possono iscriversi pochissimi artisti del pallone.
Pelé è stato il tutto, campione col sorriso di un calcio passato nei suoi anni dal bianco e nero al colore; un passaggio che valeva per tutti, tranne per lui, iridescente e vivido funambolo carioca, brasiliano nell’animo, nel cuore, nei nobili piedi.
‘O Rey resterà testimone iconico di più epoche, campione assoluto capace di vincere tre Mondiali, nel 1958, nel 1962 e nel 1970, divertendosi e divertendo, con quell’allegria scanzonata così difficile da ritrovare nei giocatori pur bravissimi dell’era tecnologica e iper-comunicativa.
Danzava, ondeggiava, scartava.
E segnava, tanto: 1281 gol in 1363 incontri, con una media di 0,92 realizzazioni a partita.
Inutile sporcare tanta bellezza con i mille paragoni su chi sia stato il migliore di sempre.
È lo stesso Pelé che abbiamo visto e rivisto, col braccio incollato al petto, in “Fuga per la Vittoria”, fortunata pellicola hollywoodiana, accanto ad attori del calibro di Sylvester Stallone, Michael Caine o Max Von Sidow.
A proprio agio, davanti alle telecamere come sul campo, pur fra le serpentine che il gioco e la vita ti costringono a fare fra gli ostacoli.
‘O Rey ha provato a dribblare, senza riuscirci, anche il terribile tumore al colon che oggi, ottantaduenne, lo strappa alla vita terrena: ha combattuto, fino allo sfinimento, ha chiesto e ottenuto l’affetto e l’amore dei propri cari, mentre tutto il mondo e gli amanti della bellezza hanno pregato per lui, come se fosse un fratello, un amico, un compagno di giochi.
Le preghiere oggi diventano lacrime, emozioni e quel brivido che corre lungo la schiena rivedendo le immagini del più grande con la maglia che lo ha consacrato alla storia: adeus, brasileiro de pés de ouro e sorriso contagiante.
Ci sono uomini che pensi non possano lasciarci mai.
Sinisa era uno di questi, fiero e coraggioso anche di fronte al male supremo, quello che ti entra dentro e ti devasta, distruggendo il fisico, lo spirito e ogni certezza.
Il sorriso, quello sguardo severo che riservava ai suoi calciatori, figli, allievi, cadetti della premiata accademia Mihajlovic del pallone, hanno lasciato il posto negli ultimi mesi alla faccia sorpresa del Sinisa mortale, quello che si accorge che persino lui, l’inossidabile guerriero, può perdere addirittura la guerra, non solo una battaglia.
E il guerriero ci ha provato, sino all’ultimo, a prendere in giro la morte: da una corsia d’ospedale alla panchina, dal campo a casa, senza un cedimento, che fosse uno, all’autocommiserazione.
Persino un esonero col Bologna, perché non si dicesse mai che il leone resta in sella perché malato.
Un uomo integrale, un maestro per i suoi ragazzi, un motivatore straordinario, come quello che prende il Catania ultimo in classifica e lo porta alla salvezza, passando da una incredibile vittoria in casa della Juve, da fanalino di coda.
Ci mancherà come possono mancare i personaggi mai banali di un mondo banale come spesso è quello del calcio: lui, Sinisa, con la schiena dritta in campo, fuori dal campo, in panchina, davanti alle telecamere, sempre sincero, con la scorza dura di chi deve proteggere un grande cuore.
Adesso Sinisa, come le aquile, vola lassù in cielo, per insegnare agli Angeli come si può, per il gusto del paradosso, essere persone vere.
L’Italia della pallavolo torna sulla vetta del mondo, con una squadra giovane e sfrontata, incosciente e consapevole, guidata in regia da Fefè De Giorgi, lucido traghettatore di anime pallavolistiche. Vinciamo in casa della Polonia, in un palazzetto caldissimo e gremito, colorato di bianco e di rosso, colmando un divario che negli ultimi anni sembrava irrecuperabile.
La vera finale era quella con la Francia di Giani, in una delle tante sliding doors che lo sport racconta: una vittoria al Quinto contro i transalpini, antipasto della scorpacciata mondiale, tutt’altro che pronosticabile. Inizia oggi, nel modo più esaltante possibile, la stagione di una nuova generazione di fenomeni: da Zorzi, Lucchetta e compagni, a Giannelli, Michieletto, Romanò, Anzani, Galasso, Balaso.
In un’Italia pazza per la pallavolo, da sempre, oggi la goduria è d’oro, sul tetto del mondo.
Educato, bello, sorridente, vincente: mai visto un “cannibale” così gentile, capace di sbranare gli avversari con l’eleganza di chi quasi si schernisce per aver conquistato in sequenza un oro nei 1500 stile libero, un bronzo nella Staffetta mista 4×1.5km acque libere, un argento nella 5km acque libere, un oro (con Acerenza secondo) nella 10km acque libere.
Disumano.
L’orgia di informazioni sui social, un paradosso, rischia di relegare sportivi mitologici a mero fenomeno “mordi e fuggi”: qualche ora di esaltazione collettiva, milioni di foto, spezzoni video e poi sotto con la prossima notizia acchiappa-click, senza neppure il tempo di un loop o di un fermo-immagine.
E invece Paltrinieri merita ben altro.
Merita le sfumature di colore “catodiche” di Mark Spitz e dei suoi sette ori di Monaco ‘72, con il loro fascino romantico; merita il bianco e nero delle imprese consegnate alla storia di atleti di ogni disciplina, quando la fatica non era una ruga super definita sul viso, ma la sommatoria di movimento sbilenchi e immaginazione, immagini sfocate e calde di tensione agonistica.
A nulla valgono i paragoni, ma sarebbe bello che fra qualche anno ci si ricordi di Greg e delle sue quattro fatiche di Budapest come la storia disi ricorda di Coppi quando scalò da solo la Maddalena, il Vars, l’Izoard, il Monginevro ed il Sestriere e giunse a Pinerolo con 11’52” su Gino Bartali.
Dodici medaglie mondiali, dodici, una maledetta mononucleosi che gli preclude il bottino pieno a Tokyo, dove vince un argento incredibile negli 800, ma gli lascia pur sempre una medaglia per metallo nel palmares a cinque cerchi, oltre a ben tredici in Europa: un medagliere in continuo aggiornamento, visto che adesso Greg ha deciso che le piscine sono troppo piccole, troppo umide, troppo chiassose.
Per questo ha scelto di nuotare nelle acque libere, allungando i chilometraggi senza diminuire la formidabile acquaticità e il senso della vittoria.
Scivola, Greg, scatta, attacca, e sembra sorridere dentro quell’elemento naturale che gli fa da liquido amniotico, lo protegge e lo nutre.
Dal bianco e nero alla dissolvenza, fino al burn-in, quel fenomeno che imprime sui televisori di ultima generazione l’ombra di una immagine troppo persistente.
Ecco, lasciatelo lì, in ogni televisore, per ricordarci che un altro Paltrinieri chissà quando rinascerà, con il suo elogio della lentezza e la serenità di chi non deve chiudere tutto nei pochi secondi di un 50 metri stile libero, ma ha tempo per farsi ammirare in vasca e nel mare, novello Poseidone, solo più sinuoso e sbarbatello.
Lo davano per finito, ma sfiniti siamo noi dopo l’ultima fatica della dieci chilometri, stravolti da una sfida entusiasmante ed increduli: Greg ha vinto la quarta medaglia in quattro giorni, mentre noi boccheggiamo fra divano e telecomando.
Lasciate stare le celebrazioni social, prendete carta, penna e calamaio, vergate su carta pergamena quest’impresa, seppiate le immagini perfette dei vostri televisori 8k: quando i vostri figli e le vostre figlie troveranno questi cimeli, in libreria o dentro a un cassetto, capiranno cosa sia l’eternità del mito, anche nello sport.
Dopo i mitologici Yam, dio del mare, Manannan Mac Lir, dio del mare e delle tempeste, Dakuwaqa, il Dio Squalo e proprio Poseidone, Dio delle Acque e del Mare, il pantheon delle divinità acquatiche ha un nuovo protagonista: Greg Paltrinieri, venerabile divinità delle piscine e delle acque libere.
Azzurro come il cielo di Budapest, azzurro come l’acqua della piscina, azzurro come il colore del secondo posto nel medagliere di questo incredibile mondiale in terra magiara.
L’Italia dei poeti, dei Santi e dei navigatori, si riscopre terra di nuotatori e nuotatrici, collezionisti di mettalli pesanti, con il sigillo imperiale dell’oro nella 4×100 dei Misti.
È difficile fare una graduatoria della medaglia più bella o dell’impresa che resterà negli annali: è quella di Ceccon, baffetto vintage e carta d’identità da maggiorenne di una volta, primatista del mondo dei 100 dorso?
O quello di Martinenghi e Pilato, ranisti d’Italia trionfatori nei loro 100?
È quella di Greg Paltrinieri, il capitano, dato a 26 dagli scommettitori dopo la delusione degli 800 e capace di disintegrare gli avversari, nuotando addirittura su livelli da primato del mondo?
Oppure è la medaglia-termometro della 4×100 mista, quella che rappresenta la cartina al tornasole del movimento natatorio di una Nazione?
Cinque istantanee di un trionfo, impossibili da mettere in fila con una graduatoria, perché rappresentano nell’insieme la capacità organizzativa, la tradizione, le metodiche di allenamento, la vocazione, custodite in anni di successi e di personaggi nelle vasche da 25 e da 50 metri, culminati oggi nella migliore spedizione mondiale di sempre.
Una Federazione Nuoto capace e tetragona, in un’Italia che negli anni si è riempita di piscine e che dalle vittorie, e dal marketing del successo di atleti e atlete in costume da bagno, ha costruito una immagine vincente e una formidabile capacità di generare campioni e campionesse a ogni ciclo.
Iride, oro e Tricolore: il caleidoscopio di immagini e sorrisi baciati dal cloro non riempie solo la piscina del nuoto, ma ha fatto capolino nella vasca dell‘artistico, con ben cinque medaglie, continuerà nella pallanuoto, con Settebello e Setterosa ai Quarti, nuoterà in acque libere ancora con Greg e i suoi fratelli e sorelle.
Un’Italia giovane, bella, sinuosa e vincente, nella continuità di un movimento che funziona.
Gianni Clerici, aedo del tennis e dello sport, è stato molto più che un giornalista.
Trascorsa qualche ora dalla morte del novantunenne giornalista e scrittore comasco, le immagini convulse e meravigliose della sua carriera hanno riempito pagine di giornale e televisioni, ribaltate sui social dal piglio nostalgico di chi ha vissuto un’altra era del giornalismo, un’altra era della televisione, un’altra era del tratto di penna che accompagna la voce e la completa, fino a diventare immagine.
Clerici non è stato il Gianni Brera del tennis; non c’è alcun bicchiere di ottimo vino o un video graffiato in 8 millimetri a rendere inmortale una icona novecentesca; semmai ci ricorderemo in uk fermo immagine di un istrionico vecchietto capace di cavalcare la modernità, prestando voce e immagine alla tempesta perfetta della telecronaca televisiva.
Lui e Rino Tommasi non sono preistoria da teche, ma milieu professionale al quale attingere per capire come si possa raccontare una pallina che cambia sempre campo con garbo, eleganza, ironia, sapiente dosaggio di competenza assoluta applicata al vivere ardendo dell’ex tubo catodico, lo stesso che tutto riduce in cenere alla velocità della luce.
Clerici vincerebbe anche domani la sfida dell’on demand, senza aggrapparsi ai tre quarti di nobiltà del proprio pedigree.
Le fragole di Wimbledon non avranno più lo stesso rosso intenso e il bianco obbligatorio delle divise dei tennisti e delle tenniste impallidirebbe ancora senza ascoltare più la voce del tennis; quella voce che all’inizio non piaceva al Berlusca, ma resterà lì, a fare audience e le fortune del tennis raccontato, con lo slang di Rino, l’Americano, e le dotte e infinite divagazioni di Gianni.
Un argomentare che non stancava mai, neanche di fronte a mille scambi da fondo campo fra Gattone Mecir e Mats Wilander, tanto l’eloquio forbito incontrava la simpatia irresistibile e la disarmante bravura.
“Il più grande conoscitore di tennis del mondo”, autore di tomi che resteranno imprescindibili per chi, a capo chino, vorrà orientarsi fra storia, costume e leggenda della racchetta: da “500 anni di tennis” fino alla storia di Lenglen, “Divina”, passando per “Il tennis facile” e “Il tennis nell’arte”.
Il giornalista gentiluomo ha traghettato lo sport da Circoli nell’immaginario popolare, difendendone la nobiltà e l’alterità senza supponenza.
Avrebbe voluto essere accarezzato da McEnroe, ha descritto come nessuno doti, vizi e virtù di Nastase, Borg, McEnroe, Panatta, Lendl, fino ai giovani Nadal e Federer; ha cantato le sfide sull’erba di Martina Navratilova e Chris Evert, ha segnato un’epoca, forse due, più probabilmente tre.
Immaginando il tennis come la Divina Commedia, Clerici sarebbe stato Virgilio, capace lungo novantuno lunghi anni, fra inferni, purgatori e paradisi della quotidianità, di diventare abbastanza adulto da poter fare da guida a chiunque volesse capirci qualcosa di tennis.
La partita è finita, al quinto set, come doveva finire.
I test lo avevano detto, in maniera equivocabile, ma novecento giorni senza vittorie inviterebbero alla prudenza anche gli inguaribili ottimisti.
Nel deserto dorato del Bahrein Leclerc centra il “Grande Slam”: pole position, primo posto e giro più veloce, con una Ferrari affidabile e bellissima, capace di portare sul podio anche Carlos Sainz, nonostante un fine settimana complicato per lui. Segnali orribili sul fronte Red Bull, con Verstappen e Perez che trovano lo “zero” fermando le monoposto a pochi chilometri dalla bandiera a scacchi e denotando problemi di affidabilità non pronosticabili alla vigilia.
Le peggiori Mercedes degli ultimi anni si ritrovano, inaspettatamente, terza e quarta, limitando i danni e restando aggrappate a un Mondiale da possibile protagonista, nonostante il “budget cap” tolga loro il vantaggio di spendere e spandere senza limiti per lo sviluppo delle monoposto.
La notizia, però, è a tinte rosso Ferrari.
La scuderia di Maranello “è” la Formula 1, è parte fondamentale di questo circo fatto di motori, sviluppo e alta tecnologia; e ai piedi di quel podio, in fondo, sorridono tutti, dentro e fuori il team guidato da Mattia Binotto.
Sorridono perché una Ferrari competitiva aiuta a rendere meno noioso quel rosario di Gran Premi che ritrova finalmente il pubblico e il fattore umano, grazie a monoposto che hanno sempre più bisogno di un pilota capace di portarle al massimo.
E attira investitori e visibilità.
Risuona l’inno di Mameli e il Mondiale ritrova una protagonista, anzi due.
Sarà battaglia, fino alla fine, ne siamo certi; ma sapere che a combattere ci saranno di nuovo due superman con il cavallino rampante marchiato a fuoco sulla pelle, in un solo istante fa ritornare la voglia, parafrasando il Maestro Battiato, di “vivere ad alta velocità”.
L’Italia interrompe la “striscia infame” di sconfitte nel Sei Nazioni e lo fa giocando un partita magistrale e vincendo dove non aveva MAI vinto, in Galles. Difesa, dominio sul punto d’incontro, ottima touche, disciplina, precisione dalla piazzola e il “crack” Capuozzo.
Il paradigma di questo cambio di passo è proprio questo mingherlino con il fisico del calabrone che non sa di non saper volare e lo fa lo stesso.
Dopo anni passati a costruire fisici bionici e armadi a quattro ante tutto muscoli, scopriamo che si può vincere anche con l’estro, con la fantasia, con l’agilità dell’estremo che risolve la partita a un minuto dalla fine.
Adesso dite pure che non conta nulla o che ci hanno fatto vincere, dimostrando di non avere idea di cosa sia il rugby e quali leggi lo governino.
C’è ancora tanto da lavorare, ma tutti quelli che ci volevano a giocare con Romania e Georgia, adesso facciano un giro su se stessi e tornino a parlare di altro.
Bravi tutti oggi, adesso azzerare, placcare e ripartire. Anche contando su una grande under 20 e con la consapevolezza di aver recuperato un po’ di credibilità a livello internazionale; perché non si vince al Millennium, non si vince a Cardiff con un movimento morto e senza futuro.
Piantiamo, con orgoglio, un seme nei verdi campi dei Maestri gallesi e brindiamo con questi ragazzi che hanno risvegliato in tutti noi l’orgoglio di tifare Italia.