Ogni maledetto 1 maggio

Non ci dilungheremo in ricordi e parole. Basta quello sguardo, uno sguardo che racchiude una generazione intera, che ha visto in Ayrton un riferimento, un mito di quelli veri.

La grandezza di Senna stava proprio in questo: si era suoi tifosi e basta, non importava il resto. Non ce ne voglia la Ferrari, l’amore maturo di tutti i 40enni di oggi. Ayrton è stata la follia adolescenziale, il poster in camera, le lacrime durante una scampagnata.

Dov’eri quando è morto Ayrton Senna? Prova a fare questa domanda a chiunque. Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso.

Erano le 14:17, gran premio di San Marino, corso ad Imola, curva del Tamburello. Il piantone dello sterzo a terra, i soccorsi, le lenzuola bianche a coprire gli occhi delle telecamere che non volevano essere indiscreti. Volevamo tutti sapere, non per morbosità, ma per affetto. Poi la radio che faceva rimbalzava notizie confuse, fino a quella definitiva; erano circa le 19 quando la sentenza arrivò definitiva. Ayrton è morto. Ayrton vivrà per sempre.

Carlo Galati

A lezione da Giannis

Leggetelo, imparatelo a memoria, capitelo. Dopo fatelo leggere, spiegatelo e trasmettetene il valore. Un valore immenso, nelle poche parole di un atleta Giannis Antetokounmpo, uno dei più grandi cestisti dell’era moderna, giocatore di punta dei Milwaukee Bucks. Alla faccia di chi giudica gli atleti bambini viziati o poco più di adolescenti capricciosi. Questa probabilmente sarà la cosa più bella che pubblicheremo, affidandoci totalmente alle parole di chi ha capito lo sport e con la speranza che tutto questo non passi con la rapidità di un canestro.

Contestualizziamo: quando gli è stato chiesto se una stagione conclusa al primo turno dei playoff, dopo aver chiuso la regular season con il miglior rapporto vittorie-sconfitte, fosse da considerarsi un fallimento, Antetokounmpo ha detto le parole più belle: “Mi hai fatto la stessa domanda lo scorso anno, Eric. Per caso tu ricevi una promozione ogni anno nel tuo lavoro? Non credo, quindi consideri il tuo lavoro un fallimento ogni volta che non accade? Direi di no. Ti impegni per ottenere altri risultati, per prenderti cura della tua famiglia, comprare una casa e tante altre cose. Non è un fallimento, ma è un passaggio necessario per provare a vincere”.

Michael Jordan – ha ricordato il giocatore greco – è stato 15 anni in NBA, ha vinto sei titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento per caso? Mi state davvero dicendo questo?”.

Perché mi fate questa domanda? Dovete capire che nello sport non esiste la logica del fallimento. Ci sono i giorni buoni e quelli pessimi, a volte riesci a vincere e altre no. Ci sono momenti in cui capisci che è il turno e altre invece devi farti da parte: è la logica di base dello sport, non si può vincere sempre”.

Nulla da aggiungere.

Carlo Galati

Evenepoel tra i grandi e il trionfo di Liegi

Viviamo un periodo di grande splendore per il ciclismo internazionale. Una bellissima generazione di fenomeni sta dominando la scena. In molti si soffermano, giustamente sui tre fenomeni che stanno vincendo (quasi) tutto: Wout Van Aert, Mathieu van der Poel, Tadej Pogačar, sono i tre tenori del ciclismo moderno. Gare a tappe, grandi classiche, ce n’è per tutti i gusti. Ma c’è chi non si arrende a quella che può sembrare un triunvirato. È uno dei favoriti quasi sempre a fari spenti: Remco Evenepoel, il campione del mondo in carica, che ha rivinto la Liegi-Bastogne-Liegi. Tanto per gradire.

Il 23enne campione del mondo belga della Soudal-Quick Step si è imposto per distacco, dopo una azione solitaria di circa 30 km, facendo così il bis del 2022 dopo che Tom Pidcock era stato l’ultimo ad arrendersi: l’ultimo ad avere vinto la Liegi in maglia iridata era stato Moreno Argentin (1987), l’ultimo a firmare una doppietta consecutiva era stato Michele Bartoli (1997-1998). Per Evenepoel si tratta del successo numero 41 della carriera.

E adesso con la fine delle classiche di primavera, si va verso la stagione dei grandi giri. Una stagione che promette fuochi d’artificio prima ancora che inizi; una sentenza più che una promessa. E non può essere una questione a tre, ma a quattro, con il campione del mondo che grida a gran voce la sua presenza.

Carlo Galati

Saper perdere, saper vincere

A differenza di alcuni motti calcistici, che considerano la vittoria come l’unica cosa che conta, ci sembra piuttosto importante sottolineare e capire come le vittorie arrivino. Perché non sempre a vincere è il più forte in valore assoluto, ma può esserlo in quel momento, un momento fatto di diversi fattori che esulano dall’esclusiva valutazione della tecnica o della forza mentale. Holger Rune ha vinto, ha battuto Jannik Sinner in semifinale a Monte Carlo ma ha pagato per questo un prezzo molto alto.

Già un veterano del circuito, uno che di nome fa Stanislav, per tutti Stan, non aveva fatto mancare di sottolineare alcuni comportamenti del giovane danese, dentro e fuori dal campo. Atteggiamenti forse figli della sua giovane età, sicuramente attribuibili ad una grande considerazione verso se stessi, che travalica le normali abitudini di gente che vive di principi dello sport. E quello che abbiamo visto in campo non rientra in questa sfera.

Nella vita come nello sport, si può vincere e si può perdere ma il fulcro di tutto è come si vince, come si perde. Si può vincere e perdere con onore e rispetto, verso l’avversario, verso chi guarda, verso se stessi. Le patetiche scenette del giovane danese non appartengono alla sfera dello sport in generale, del tennis in particolare. Gli auguriamo mille vittorie e altre mille ancora, ma soprattutto gli auguriamo di modificarne la natura: vincere dimostrando una superiorità fine a se stessa è l’anticamera della mancanza di valori e senza quelli ogni vittoria vale solo l’istante in cui avviene. L’esatto opposto di un campione. Bonne chance giovane Holger.

Carlo Galati

Il derby, il sogno e il grande impeto

Sgomberando subito il campo da ogni tipo di interpretazione, potremmo tranquillamente dire che sia stata una partita a senso unico, incanalata in un binario nel quale nessuna deviazione ha modificato la sua corsa. Sinner ha vinto con merito, Musetti ha perso di fronte allo strapotere di un giocatore, ad oggi, più forte di lui. Il resto sono solo elucubrazioni mentali, se vogliamo chiamarle così.

Il match è fondamentalmente vissuto su alcuni momenti realmente decisivi: tutti sempre in favore di Sinner, bravo ad azzerare le occasioni del compagno di nazionale, bravo a capitalizzare le occasioni avute. Massima resa con il minimo sforzo. Mai in partita Lorenzo, probabilmente con le pile scariche dopo l’impresa di ieri, sempre in partita Jannik animale da gara, impeto tennistico allo stato pure, fiuta la vittoria come un’ossessione. Nella sua testa costanza, determinazione e quella voglia di non lasciare mai nulla al caso.

E sta qui la differenza, non tanto nel gesto tecnico. Chi potrebbe dire in coscienza che Musetti non abbia le armi per primeggiare? Ma si sa, il tennis è tanta testa, serena convinzione dei propri mezzi, freddezza nel comprendere i momenti chiave della partita. E saranno questi momenti a decretare il prosieguo del cammino di Sinner; il triangolo dell’ultimo chilometro è lì, alla sua portata. Con le mani salde sul manubrio, che ha la forma di una racchetta e avversari come salite non impossibili da scalare. Il sogno è lì.

Carlo Galati

Il Musetti che ti aspetti

Troppe volte si abusa di termini che potrebbero sembrare pleonastici, fino a quasi considerarli melensi. È il rischio che corre chi scrive, è la sensazione soprattutto di chi legge. Eppure alzi la mano chi non definirebbe ciò che ha fatto Lorenzo Musetti, col termine impresa. Battere il numero uno al mondo non è cosa da tutti i giorni: c’è riuscito Sinner a Miami, c’è riuscito Musetti a Monte Carlo. Cambiano gli addendi, ma il risultato no. Italians do it better.

E nulla ha potuto un Novak Djokovic, che magari non sarà al 100% della propria condizione, ma che ha dato comunque la paga a molti, mostri sacri compresi, anche così. Una partita strana, fatta di 15 break, errori, colpi vincenti, palle sulla linea e pioggia; quella pioggia che ha rallentato tutto, diluendo nel tempo ciò che poteva essere e ciò che è stato.

È stata paura, rassegnazione, speranza e gioia finale. È stata soprattutto la forza di un giocatore stupendo da vedere, appartenente a quella categoria di giocatori che corrono sempre sul filo sottile della bellezza di un tennis che rende omaggio a se stesso, nella purezza del gesto. Domani sarà un confronto di stili con l’amico Jannik, in un quarto di finale che regalerà all’Italia un semifinalista a Monte Carlo e a noi un’altra meravigliosa giornata di tennis.

Carlo Galati

Berrettini, basta un giorno così

È nei momenti più difficili, quelli da cui non sai quando ne verrai fuori, che l’animo umano trova molte volte la forza per sistemare le cose. Per capire non se, ma quando. Nella vita di un tennista, ma di uno sportivo in generale, il momento in cui tutto gira male, prima o poi arriva. La grandezza di un atleta sta nel superarlo. Non se, ma quando. Il quando di Matteo Berrettini è nella partita vinta con Francisco Cerundolo a Montecarlo.

Un match vinto, poi perso, poi di nuovo vinto. Montagne russe, che rappresentavano l’altalena di emozioni che hanno attraversato Matteo in questi mesi, colpevole per molto di vivere la propria vita, come un ragazzo di 27 anni, compiuti proprio oggi. E si è fatto un bel regalo, non tanto per la vittoria in se quanto per come questa sia arrivata. Non se, ma come, in questo caso.

È stato un come esaltante, che ridà coraggio e fiducia, orgoglio e forza ad un giocatore che aveva bisogno di un giorno così. Del domani non vi è certezza; cosa sarà del prosieguo del torneo lo si vedrà giorno dopo giorno. Ma non è importante. Quello che importa è che Berrettini abbia ritrovato se stesso, ne sarà felice lui. Ne siamo felici anche noi.

Carlo Galati

Van der Poel, re nel pavé

Fenomeno Mathieu Van der Poel. O fenomenale, se preferite. Non modifica nulla la declinazione semantica rispetto alla grande impresa di un ciclista che dopo aver vinto la Milano-Sanremo, il secondo posto al Giro delle Fiandre, ha iscritto il proprio nome nella classica delle classiche, quella Parigi-Rubaix che attraversa foresta e pavé, esemplificando il concetto più romantico del ciclismo fatto di polvere, sudore e lacrime.

Si è imposto per distacco, l’olandese, sul Carrefour, il momento decisivo: Van der Poel, nipote del grande Raymond Poulidor, ha attaccato, portandosi dietro Wout Van Aert. Il belga però è stato vittima di una foratura proprio nei metri finali del settore ed è stato costretto prima a cambiare ruota, poi a inseguire l’eterno rivale. Van der Poel si è involato mantenendo una trentina di secondi di vantaggio, sufficienti per arrivare in solitudine nel velodromo Petrieux. Una Roubaix corsa a una media esagerata: 46,8 km/h, la più veloce di sempre. Van der Poel, infatti, ha tagliato il traguardo in lacrime e poi, stremato, si è lasciato cadere a terra circondato dai membri del suo team.

Grande la prova di Pippo Ganna che è stato con i primi fino alla fine salvo poi guardare un olandese volare fino al velodromo di Roubaix che lo ha incoronato re di un regno che solo in pochi potranno contrastare.

Carlo Galati

I Leoni alla conquista dell’Europa

È arrivato in un sabato pomeriggio prepasquale, con i pensieri rivolti altrove, uno dei risultati più importanti della storia del rugby italiano. E no, non c’entra la nazionale, ma il club che maggiormente rappresenta la storia ovale italiana, quel Benetton Treviso che battendo il Cardiff al “Monigo” per 27-23 hanno conquistato il pass per la semifinale della Challeng Cup, la seconda competizione europea per club.

Per capire l’importanza di questo traguardo basti pensare che nessun altra squadra era mai arrivata così avanti nelle competizioni europee, perlomeno non a questo livello. Viadana in passato aveva giocato e perso contro Montpellier una finale di ‘Shield’ – equiparabile alla Conference League del calcio – nel 2003/2004, ma il risultato della Benetton è di prestigio nettamente superiore.

I leoni sono così chiamati ad un’altra impresa, questa volta contro il Tolone di un certo Sergio Parisse, una delle grandi del rugby europeo, il pronostico sembra chiuso. Ed effettivamente lo è, come lo era con i gallesi. Il bello del rugby: la palla ovale decide come rimbalzare senza nessuna logica apparente.

Carlo Galati

Meravigliosamente Jannik

“Go for it man, I’ll cheer for you”. L’abbraccio a fine match, lo sguardo sincero e la consapevolezza di aver giocato una delle partite più belle della sua carriera, seppur ancora giovane. È il riconoscimento da parte del numero 1 al mondo nei confronti del suo alter ego, della sua nemesi. Jannik Sinner è l’unico sul circuito al momento in grado di tenere testa a Carlos Alcaraz. Lo sanno entrambi.

È stato perfetto Jannik, nella notte di Miami. Ha perso nel consueto tie break che ormai si gioca tra i due, quasi come fosse un obolo da pagare ad ogni incontro; ha tenuto dritta la barra, continuato a macinare il proprio gioco fino ad arrivare al punto del match, guidato da quel servizio che ormai da kryptonite che era è diventato come gli spinaci per braccio di ferro.

L’ostacolo finale tra Sinner e il primo titolo 1000 si chiama, Daniil Medvedev avversario durissimo, ma questo Jannik è in grado di tutto. È in grado di battere il numero uno al mondo in tre ore, portando questa rivalità che profuma già di storia in perfetto equilibrio, tre vittorie a testa; sarà in grado di giocare con i galloni del possibile vincitore questa finale. Se lo merita, merita di iniziare quella scalata che lo può portare dove prima o poi arriverà.

Carlo Galati