Il confronto che fa discutere

Sappiamo di essere una sparuta minoranza. Una di quelle minoranze che non vanno contro solo perché è giusto sedersi sempre dalla parte del torto ma perché cerchiamo di guardare alcune questioni semplicemente da un’altra prospettiva. Nel caso specifico, quello dei tifosi o se preferite degli Ultras. Il caso è quello relativo ai giocatori del Milan, chiamati a raccolta da alcuni esponenti del tifo rossonero dopo la batosta di Spezia e prima di una semifinale di Coppa Campioni, sulla quale non bisogna aggiungere nulla per esaltarne l’importanza.

In molti hanno criticato la scena, configurandola come la stessa procura della FIGC vorrebbe far intendere, come minaccia, avvertimento di stampo mafioso/camorristico, insomma, ne abbiamo lette tante e tante altre ancora. Tutte tendenti alla critica e alla condanna, nessuna che provi a capire il punto di vista di chi vive in prima linea una passione. Abbiamo visto un confronto, duro ma civile, onesto e leale, tra tifosi e squadra tra chi vive di qualcosa e chi vive per qualcosa.

Queste scena non è criminale, queste immagini servono anche a fare gruppo e a trovare dall’esterno forze nuove e carica per il momento più importante della stagione. Basta speculazioni, stop alle dietrologie e alla analisi sociologiche da professionisti del buonismo o del dito puntato. Nessuna retorica, solo sano e responsabile confronto, quello che alcuni criticoni non sono abituati, forse, ad avere.

Carlo Galati

Arrivederci, Lord Gianluca

L’addio di Sinisa suonava già come un triste presagio.

La generazione di fenomeni passati dal miracolo blucerchiato, i ragazzi terribili capaci di parlare e lanciare messaggi anche fuori dal campo, si sono ritrovati persino a combattere contro un nemico comune.

E hanno perso, dopo aver lottato strenuamente, a testa alta, con l’orgoglio di chi ha fatto del sudore e del sacrificio una ragione di vita.

Gianluca Vialli aveva fatto della propria vita un capolavoro, passando dal campo alla panchina, per approdare alla dirigenza calcistica, restando uomo di campo, dispensatore di consigli, uomo vero in un mondo del calcio pieno zeppo di maschere e banalità.

Il grande male lo aveva reso più saggio, consapevole del suo ruolo di uomo pubblico e di quanto la sua esperienza potesse diventare un esempio su come affrontare l’appuntamento con una morte quasi certa.

Lo ha fatto con orgoglio e con una profondissima dignità, facendoci commuovere con quell’abbraccio londinese a Roberto, fratello di gol e scorribande, di professione allenatore degli Azzurri.

Piangeva, Gianluca.

Piangeva perché sapeva che quella gioia sarebbe potuta essere una delle ultime di una carriera che lo ha visto alzare tutte le Coppe delle competizioni UEFA.

Ci piace pensare che adesso invece sorrida, in quel fazzoletto di Cielo color diamante che accoglie anche Sinisa e Pelé: un grande centrocampo, un attacco atomico.

Riposa in pace, Campione.

L’inarrestabile declino del calcio

Una diapositiva che non avrebbe bisogno di ulteriori commenti. Due istanti, separati da pochi attimi, che raccontano di quanto il calcio, lo sport più amato, quello che per definizione popolare, non è “solo uno sport”, sia nella fase di una matura decadenza, per certi versi inarrestabile. Una decadenza guidata da chi il giocattolo lo maneggia e gestisce: Gianni Infantino.

Al cospetto di chi ha plasmato il calcio a propria immagine, di chi lo ha saputo trasformare da semplice sport in qualcosa di poetico, la decenza lascia il passo all’immoralità del moderno modo di intendere quello che è oggi questo calcio. Un qualcosa che non devia il proprio corso, ormai compromesso, neanche di fronte alla salma di Pelé, uno che solo a nominarlo vengono i brividi.

Foto, selfie e risatine. Questo è quello che ha mostrato il padrone del calcio: l’uomo che decide cosa e quando, ma che non può prendersi tutto. Non si prenderà la passione, non si prenderà l’ispirazione che giganti come Pelé hanno trasmesso al mondo. Si prenderà i soldi e tanti e saranno quelli che distruggeranno tutto. In maniera tremendamente irreversibile.

Carlo Galati

‘O Rey vola nel Paradiso dei Campioni

Il Re è morto, viva il Re?

Impossibile.

Edson Arantes do Nascimento è volato in cielo, lasciando un vuoto incolmabile in quell’Olimpo degli dèi del calcio al quale possono iscriversi pochissimi artisti del pallone.

Pelé è stato il tutto, campione col sorriso di un calcio passato nei suoi anni dal bianco e nero al colore; un passaggio che valeva per tutti, tranne per lui, iridescente e vivido funambolo carioca, brasiliano nell’animo, nel cuore, nei nobili piedi.

‘O Rey resterà testimone iconico di più epoche, campione assoluto capace di vincere tre Mondiali, nel 1958, nel 1962 e nel 1970, divertendosi e divertendo, con quell’allegria scanzonata così difficile da ritrovare nei giocatori pur bravissimi dell’era tecnologica e iper-comunicativa.

Danzava, ondeggiava, scartava.

E segnava, tanto: 1281 gol in 1363 incontri, con una media di 0,92 realizzazioni a partita.

Inutile sporcare tanta bellezza con i mille paragoni su chi sia stato il migliore di sempre.

È lo stesso Pelé che abbiamo visto e rivisto, col braccio incollato al petto, in “Fuga per la Vittoria”, fortunata pellicola hollywoodiana, accanto ad attori del calibro di Sylvester Stallone, Michael Caine o Max Von Sidow.

A proprio agio, davanti alle telecamere come sul campo, pur fra le serpentine che il gioco e la vita ti costringono a fare fra gli ostacoli.

‘O Rey ha provato a dribblare, senza riuscirci, anche il terribile tumore al colon che oggi, ottantaduenne, lo strappa alla vita terrena: ha combattuto, fino allo sfinimento, ha chiesto e ottenuto l’affetto e l’amore dei propri cari, mentre tutto il mondo e gli amanti della bellezza hanno pregato per lui, come se fosse un fratello, un amico, un compagno di giochi.

Le preghiere oggi diventano lacrime, emozioni e quel brivido che corre lungo la schiena rivedendo le immagini del più grande con la maglia che lo ha consacrato alla storia: adeus, brasileiro de pés de ouro e sorriso contagiante.

Os mais velhos estarão lá para sempre.

Dal Messico a Messi, l’Argentina si riprende il calcio

Non deve essere semplice vivere nel mito di Diego. Esserne indicato da tutti come l’erede naturale, giocare con il fardello di dover sempre competere con l’eterno spirito del calcio, un peso che può schiacciarti o renderti immortale, come solo il d10 del calcio è riuscito a essere. Leo Messi dopo una rincorsa durata un’intera vita, è riuscito ad arrivare lì dove merita di stare: nel ristretto club della mitologia sportiva.

Lo ha fatto dimostrando di essere, così come Diego, un trascinatore, un capitano capace di caricarsi sulle proprie spalle le aspettative di un popolo che guardava a lui come l’unico in grado di riuscire dove tanti avevano fallito prima, nell’ultima occasione della sua vita, facendo quello per cui era nato: far rivivere il mito, alzando quella coppa, 36 anni dopo.

E come Diego ha praticamente vinto da solo un mondiale in cui, gli altri, sono stati degli utili comprimari a servizio del genio assoluto, così come fu quella nazionale argentina del 1986. A differenza di Diego, ha vinto tutto quello che c’era da vincere, lasciando dietro di se il vuoto: non ha più nulla da dimostrare, nulla da chiedere e non deve più dare nulla a nessuno, saldando tutti i debiti che la storia gli aveva attribuito e lasciando un credito infinito nello sport e nella storia dell’Argentina, sedendo una volta per tutte accanto al più grande di sempre.

Carlo Galati

Un’aquila è nel cielo

Ci sono uomini che pensi non possano lasciarci mai.

Sinisa era uno di questi, fiero e coraggioso anche di fronte al male supremo, quello che ti entra dentro e ti devasta, distruggendo il fisico, lo spirito e ogni certezza.

Il sorriso, quello sguardo severo che riservava ai suoi calciatori, figli, allievi, cadetti della premiata accademia Mihajlovic del pallone, hanno lasciato il posto negli ultimi mesi alla faccia sorpresa del Sinisa mortale, quello che si accorge che persino lui, l’inossidabile guerriero, può perdere addirittura la guerra, non solo una battaglia.

E il guerriero ci ha provato, sino all’ultimo, a prendere in giro la morte: da una corsia d’ospedale alla panchina, dal campo a casa, senza un cedimento, che fosse uno, all’autocommiserazione.

Persino un esonero col Bologna, perché non si dicesse mai che il leone resta in sella perché malato.

Un uomo integrale, un maestro per i suoi ragazzi, un motivatore straordinario, come quello che prende il Catania ultimo in classifica e lo porta alla salvezza, passando da una incredibile vittoria in casa della Juve, da fanalino di coda.

Ci mancherà come possono mancare i personaggi mai banali di un mondo banale come spesso è quello del calcio: lui, Sinisa, con la schiena dritta in campo, fuori dal campo, in panchina, davanti alle telecamere, sempre sincero, con la scorza dura di chi deve proteggere un grande cuore.

Adesso Sinisa, come le aquile, vola lassù in cielo, per insegnare agli Angeli come si può, per il gusto del paradosso, essere persone vere.

Sacrificio mondiale

Una settimana di questo strano mondiale di calcio in Qatar, è passata, andata via piuttosto velocemente rispetto ad una manifestazione lenta e scarna di contenuti calcistici; una settimana invece ricca di immagini forti di gesti forti. Una settimana in cui ci siamo riscoperti se non più poveri, sicuramente più deboli nella consapevolezza che tutto si può barattare o comprare. Anche i diritti.

E non vogliamo appartenere a quella categoria di indignados per partito preso o per presunta convenienza. Ne prendiamo atto, come tante altre cose della vita. Prendiamo atto del fatto che poi forse il sostegno alla comunità LGBT non è poi così importante. Prendiamo atto del fatto che i diritti delle donne iraniane (e non solo), che lottano per la propria indipendenza dal regime, è un qualcosa di sacrificabile in nome della tranquillità della manifestazione e di una presunta moralità qatariota.

Conosciamo le logiche del mondo e siamo consapevoli che non si sarebbe potuto fare altrimenti. Domani, però, quando tutto sarà finito, risparmiateci la morale, risparmiateci le infinite solfe su quello che si deve fare/pensare/ dire in nome dell’inclusione a comando. E non perché non sia giusto, anzi. Condividiamo tutte queste battaglie. Ma sono state messe da parte per un mese ma queste cose non possono essere congelate e scongelate a piacimento. O ci credi sempre, o mai. Gli ipocriti del calcio, mai.

Carlo Galati

Nessuno tocchi Antony

A vederlo in dirette sembrava uno di quei bug della Play, quando i giocatori cominciano a fare cose senza senso nei videogame si “incantano” e fanno cose senza senso. Oppure quando, sempre con il joystick in mano, si esagera con i numeri per innervosire l’amico-avversario. Questa volta però, durante Manchester United-Sheriff (3-0), era tutto vero: niente Play, niente bug e niente joystick.

L’autore è Antony terzino sinistro del ManU che stoppa palla e ruota su se stesso con il pallone incollato all’interno sinistro. Due giri completi, in realtà totalmente inutili visto che l’attaccante dei Red Devils non è pressato, tecnicamente non è neppure un dribbling. Semplicemente un virtuosismo estetico fine a se stesso, ma che ha fatto impazzire i social e il suo allenatore che lo ha pubblicamente ripreso e messo in panchina. Ma vivaddio cos’e il calcio se non divertimento?

Che male c’è ad aver fatto eseguito un gesto tecnico, per la sana voglia di divertisi e divertire il pubblico che ha apprezzato, sia quello all’Old Trafford che a casa? Ecco il perché di uno sport che sta diventando tutt’altro: perché ha perso le sue radici di divertimento, riconducendo sempre il tutto alla concretezza raggiunta ad ogni costo anche sul 3-0 di una partita finita. Ed è proprio per questo che diciamo, evviva, evviva, evviva. Evviva Antony e le sue giocate per alcuni da circo, per altri (molti) da artista del pallone.

Carlo Galati

Benzema, l’oro del calcio mondiale

L’ultimo francese a vincere il Pallone d’oro era stato Zinedine Zidane, nel 1998, al termine di una stagione che lo vide campione del mondo con la sua nazionale nel mondiale di casa. Il massimo della grandeur. Dopo 24 anni sono proprio le mani di Zizou a segnare il passo, consegnando a Karim Benzema quel testimone tanto meritato quanto atteso.

E lo ha fatto vincendo la quinta Champions da leader maximo dei blancos in incredibili rimonte. A cominciare da quella che ribaltò il Psg, grande favorito, messo alla porta agli ottavi nonostante il tridente delle meraviglie, a prima vista, composto da Messi, Neymar e Mbappé. Al Real invece è bastato un Benzema al picco della sua carriera, elegante e spietato che ha concluso la stagione da capocannoniere di Liga e pure di Champions, dove ha affondato Chelsea, City e in finale il Liverpool.

Una stagione da ricordare, un pallone d’oro che rompe equilibri stantii e che regala una nuova prospettiva ad un premio che era stato giustamente o meno, egemonizzato dai soliti noti. Karim ha battuto anche loro, in rimonta, come la sua annata, arrivando anche stavolta a quella vittoria tanto desiderata.

Carlo Galati

Il Nottingham Forest è tornato

È nato nel 1979, proprio mentre il Nottingham Forest conquista la prima di due irripetibili Coppe dei Campioni: Steve Cooper non sarà Brian Clough, leggendario allenatore dei tricky trees, ma siede sulla stessa panchina e dopo 23 anni ha riportato quella squadra in Premier League.

È il sogno di una città intera e della sua orgogliosa gente passata dalla massima gloria europea al declino verso gli inferi del calcio professionistico inglese; era retrocesso in seconda divisione nel 1999 e non era più riuscito a risalire, subendo anche l’onta di scivolare in League 1 nel 2005, da cui era riuscito a risalire solo nel 2008. Poi 13 stagioni in Championship in cui non era mai andato oltre il 3° posto, centrato nel 2010.

Eppure la nobiltà calcistica non è qualcosa che gli arabi o i magnati, più o meno identificati o identificabili, possono comprare al mercato sfruttando la pesante moneta di chi ha la sfacciataggine di voler comprare tutto. Quel romantico ideale di sogno trova in quella maglia la sua più reale versione, nel ricordo di ieri nella gioia di oggi.

Carlo Galati