Roland Garros, day 1: i match da seguire

Ed eccoci nuovamente qui. Il ritorno di questa rubrica, dedita agli Slam, che vi consiglia i migliori cinque match (fino a quando possibile ovviamente) è tornata a furor di popolo. La pressione è tanta, cercheremo di non deludervi. Il primo turno di uno Slam è come entrare da Walmart o da Harrod’s durante il Black Friday: vorresti avere tutto, ma i soldi sono quelli che sono. Ecco sostituite i soldi con il tempo ed il gioco è fatto. Secondo il nostro assolutamente sindacabile giudizio, le partite da seguire nel day 1 del Roland Garros 2023:

  • Arnaldi-Galan: Arnaldi è in questo momento il nostro Matteo di punta. E’ reduce da un periodo in cui ha battuto gente come Ruud a Madrid e Schwartzman a Roma, sbocciando come la primavera fa con i fiori. Galan è un osso duro, terraiolo come tutti quelli che provengono da quelle latitudini. Arnaldi favorito ma può pagare lo scotto dell’inesperienza del 3 su 5.
  • Shelton-Sonego: probabilmente tra tutte quelle che vi segnaleremo oggi, è la partita che promette di più. Il giovane Ben è l’astro nascente del tennis a stelle e strisce. Lorenzo è uno che quando gioca sulla superfice color granata, dà il meglio. Un solo precedente tra i due: Cincinnati nel 2022. Vinse Ben. A Parigi sarà un’altra storia.
  • Musetti-Ymer: potenzialmente pericolosissima. Lorenzo è uno che, se gli prendono i cinque minuti, può tirare giù tutto il firmamento, Ymer è reduce dall’aver distrutto una racchetta contro la sedia dell’arbitro, che gli è valso l’allontanato dal torneo di Lione. Per quanto riguarda il match in se per se, Lorenzo può entusiasmare da subito.
  • Collins-Pegula: avremmo voluto scrivere di Mannarino-Humbert, perculando un po’ gli amici francesi, ma ci hanno riportato a più miti consigli e quindi, passando al lato femminile del torneo, il consiglio è quello di seguire Collins-Pegula. Sempre di derby si tratta ma con minore grandeur francese a modificarne il pathos.
  • Errani-Tiechmann: Sappiamo di aver scelto questo match principalmente perché è sempre bello rivedere Sara sulla terra di Parigi. Certi ricordi sono indelebili. Il pronostico sembra chiuso, ma le stimmate della giocatrice che fu sono ancora su Sara.

Carlo Galati

Roglic, quella salita verso il titolo

Primoz Roglic ricorderà per sempre il Monte Mussari e la sua salita. Conquistata, vinta e con essa il Giro d’Italia. È infatti la cronoscalata della penultima tappa quella che ha deciso il re dell’edizione numero 106 della corsa rosa. Un re giusto, un re che fa suo uno scettro e una corona contesa fino all’ultimo con Geraint Thomas.

Impetuosa la sua salita verso la cima, lo sloveno ha vinto con il tempo di 44’23” e nonostante un incidente meccanico che ha causato un salto di catena e un’inevitabile rallentamento, il corridore della Jumbo si è esaltato pedalando sempre con estrema agilità, ha recuperato il distacco che lo separava da Geraint Thomas ed ha conquistato tappa e Giro.

Roglic ha firmato la sua impresa, conclusa in larime con l’abbraccio di tutti i suoi compagni di squadra, che sono rimasti al traguardo aspettando il loro capitano. L’uomo che aveva perso un Tour de France in una cronoscalata incredibile a La Planche des Belles Filles vince il Giro d’Italia con una cronoscalata incredibile a Monte Lussari, riprendendosi moralmente e pariteticamente qualcosa che gli era stato tolto. Le leggi non scritte dello sport hanno nuovamente segnato il passo.

Carlo Galati

Il momento in cui Bou Samnang ha spiegato perché

Quante volte ci siamo chiesti il motivo per cui continuare, perseverando consapevolmente, nel voler raggiungere qualcosa che apparentemente sembra impossibile da afferrare, combattendo contro quel mostro che dentro ognuno di noi ci dice di fermarci. Di non proseguire. Cinquemila metri di corsa sotto una pioggia torrenziale sarebbero un buon motivo per ascoltarlo quel mostro e rispondere a quella domanda. Non c’è nessun motivo per continuare.

Non per Bou Samnang, atleta cambogiana che nella pista d’atletica blu dello stadio di casa, il Morodok Techno National Stadium di Phnom Penh, ha vissuto in questa ambientazione quasi apocalittica, la gara dei 5000 metri femminili di atletica leggera della 32esima edizione dei Giochi del Sudest Asiatico, arrivando ultima ad oltre cinque minuti di distanza dalla vincitrice della gara. Ma gli applausi sono per lei, piccola e coraggiosa padrona di casa, che con tutto l’orgoglio dell’atleta ha dato un senso vero a qualcosa che un senso sembra non averlo.

Samnang corre da sola in pista con il pettorale 401, è completamente fradicia e appare visibilmente provata dalla fatica. Eppure non si arrende, supera l’ultima curva e taglia il traguardo. Piange lei, piange il cielo, per la giusta emozione che un’impresa del genere può regalare. A lei e a tutti noi che abbiamo visto un piccola ragazza cambogiana, spiegarci il senso dello sport e anche il senso della vita.

Carlo Galati

Lo merita Parisse, lo merita il rugby italiano

Una bandiera tricolore sventola nel cielo di Dublino, un cielo che ha visto le lacrime di tanti che, con la palla ovale tra le mani, hanno gioito, hanno pianto, hanno riso e sofferto. Insomma, hanno vissuto. Il cielo di Dublino ha visto il volto felice di Sergio Parisse, Capitan Parisse, che alla soglia dei 40 anni ha trascinato il suo Tolone al successo sugli scozzesi del Glasgow nella finale di Challenge Cup con un inequivocabile 49-13, giocando per 69 minuti e marcando una delle sei mete finali.

Festeggia Parisse, cingendo quel tricolore che con la maglia azzurra ha difeso per anni fino all’ultima apparizione nella coppa del mondo giocata in Giappone nel 2018. Ci torneremo. Per il terzo centro, quella di Dublino potrebbe essere l’ultima apparizione in campo internazionale. Sì, perché Parisse non è nella lista dei 46 giocatori presi in considerazione dal c.t. Kieran Crowley per la prossima Coppa del Mondo. E La scelta appare incomprensibile.

Incomprensibile non perché Parisse goda di chissà quale privilegio, ma perché le motivazioni dell’esclusione, sembrano essere di natura tecnica: incomprensibile, appunto. Anche se l’ultima delle sue 142 presenze-record in azzurro (92 da capitano) risale a quattro stagioni fa e alla rassegna iridata giapponese, averlo in gruppo non sarebbe un omaggio al campione che è e che è stato, non sarebbe il modo per regalargli un giusto riconoscimento (nessuno ha mai giocato 6 RWC), ma rappresenterebbe un esempio per un gruppo giovane che vuole far cambiare marcia al rugby italiano. Parisse merita di entrare nella storia, Parisse merita di essere in Francia, a 21 anni di distanza da quell’esordio in Nuova Zelanda, semplicemente perché lo merita il rugby italiano che ha difeso in questi anni con onore e orgoglio. Fino all’ultima volta, sotto il cielo di Dublino.

Carlo Galati

Il confronto che fa discutere

Sappiamo di essere una sparuta minoranza. Una di quelle minoranze che non vanno contro solo perché è giusto sedersi sempre dalla parte del torto ma perché cerchiamo di guardare alcune questioni semplicemente da un’altra prospettiva. Nel caso specifico, quello dei tifosi o se preferite degli Ultras. Il caso è quello relativo ai giocatori del Milan, chiamati a raccolta da alcuni esponenti del tifo rossonero dopo la batosta di Spezia e prima di una semifinale di Coppa Campioni, sulla quale non bisogna aggiungere nulla per esaltarne l’importanza.

In molti hanno criticato la scena, configurandola come la stessa procura della FIGC vorrebbe far intendere, come minaccia, avvertimento di stampo mafioso/camorristico, insomma, ne abbiamo lette tante e tante altre ancora. Tutte tendenti alla critica e alla condanna, nessuna che provi a capire il punto di vista di chi vive in prima linea una passione. Abbiamo visto un confronto, duro ma civile, onesto e leale, tra tifosi e squadra tra chi vive di qualcosa e chi vive per qualcosa.

Queste scena non è criminale, queste immagini servono anche a fare gruppo e a trovare dall’esterno forze nuove e carica per il momento più importante della stagione. Basta speculazioni, stop alle dietrologie e alla analisi sociologiche da professionisti del buonismo o del dito puntato. Nessuna retorica, solo sano e responsabile confronto, quello che alcuni criticoni non sono abituati, forse, ad avere.

Carlo Galati

L’insopportabile giostra

Potremmo raccontarvi di come Aryna Sabalenka, abbia battuto la numero uno al mondo, Iga Swiatek, in finale a Madrid, tornando a vincere sulla terra spagnola due anni dopo aver battuto Ashley Barty, all’epoca anche lei numero uno al mondo. Oppure perdere tempo, inerpicandoci in discorsi assolutamente inutili che riguardano le presunte dimensioni di torte di compleanno e l’altrettanto presunta disparità di trattamento tra la bielorussa e Carlos Alcaraz, proprio a Madrid. Vicenda quest’ultima che ha fatto subito urlare al sessismo o alla discriminazione russofila et similia. Stupidagini sulle quali abbiamo già sprecato tempo. Troppo. Il tema è invece un altro, portato alla ribalta da una tennista, Amanda Anisimova, che a soli 21 ha detto basta.

“È diventato insopportabile disputare i tornei di tennis”. Semplicemente così, con un post social ha annunciato la propria voglia di smettere. È un grido di dolore che prova ad intaccare il muro attorno a ciò che in molti sembrano non vedere o non volerlo fare. Il tema è quello della salute mentale, già portato alla ribalta qualche anno fa da Naomi Osaka e che deve far riflettere. Senza generalizzare, senza voler puntare il dito contro qualcuno, semplicemente capire perché a soli 21 anni e con tutta la vita sportiva davanti si possa dire basta. È una sua scelta e va rispettata. Il rammarico è che si sia bruciato un talento, che magari non avrebbe vinto Slam su Slam, ma che con questo gesto, lancia un segnale molto forte e apre diversi scenari ed interrogativi su cosa si sarebbe potuto fare per evitare tutto ciò ed evitare che possa ripetersi in futuro.

Forse nulla; forse però vale la pena provare a farsi qualche domanda in più.

Carlo Galati

Ogni maledetto 1 maggio

Non ci dilungheremo in ricordi e parole. Basta quello sguardo, uno sguardo che racchiude una generazione intera, che ha visto in Ayrton un riferimento, un mito di quelli veri.

La grandezza di Senna stava proprio in questo: si era suoi tifosi e basta, non importava il resto. Non ce ne voglia la Ferrari, l’amore maturo di tutti i 40enni di oggi. Ayrton è stata la follia adolescenziale, il poster in camera, le lacrime durante una scampagnata.

Dov’eri quando è morto Ayrton Senna? Prova a fare questa domanda a chiunque. Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso.

Erano le 14:17, gran premio di San Marino, corso ad Imola, curva del Tamburello. Il piantone dello sterzo a terra, i soccorsi, le lenzuola bianche a coprire gli occhi delle telecamere che non volevano essere indiscreti. Volevamo tutti sapere, non per morbosità, ma per affetto. Poi la radio che faceva rimbalzava notizie confuse, fino a quella definitiva; erano circa le 19 quando la sentenza arrivò definitiva. Ayrton è morto. Ayrton vivrà per sempre.

Carlo Galati

A lezione da Giannis

Leggetelo, imparatelo a memoria, capitelo. Dopo fatelo leggere, spiegatelo e trasmettetene il valore. Un valore immenso, nelle poche parole di un atleta Giannis Antetokounmpo, uno dei più grandi cestisti dell’era moderna, giocatore di punta dei Milwaukee Bucks. Alla faccia di chi giudica gli atleti bambini viziati o poco più di adolescenti capricciosi. Questa probabilmente sarà la cosa più bella che pubblicheremo, affidandoci totalmente alle parole di chi ha capito lo sport e con la speranza che tutto questo non passi con la rapidità di un canestro.

Contestualizziamo: quando gli è stato chiesto se una stagione conclusa al primo turno dei playoff, dopo aver chiuso la regular season con il miglior rapporto vittorie-sconfitte, fosse da considerarsi un fallimento, Antetokounmpo ha detto le parole più belle: “Mi hai fatto la stessa domanda lo scorso anno, Eric. Per caso tu ricevi una promozione ogni anno nel tuo lavoro? Non credo, quindi consideri il tuo lavoro un fallimento ogni volta che non accade? Direi di no. Ti impegni per ottenere altri risultati, per prenderti cura della tua famiglia, comprare una casa e tante altre cose. Non è un fallimento, ma è un passaggio necessario per provare a vincere”.

Michael Jordan – ha ricordato il giocatore greco – è stato 15 anni in NBA, ha vinto sei titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento per caso? Mi state davvero dicendo questo?”.

Perché mi fate questa domanda? Dovete capire che nello sport non esiste la logica del fallimento. Ci sono i giorni buoni e quelli pessimi, a volte riesci a vincere e altre no. Ci sono momenti in cui capisci che è il turno e altre invece devi farti da parte: è la logica di base dello sport, non si può vincere sempre”.

Nulla da aggiungere.

Carlo Galati

Evenepoel tra i grandi e il trionfo di Liegi

Viviamo un periodo di grande splendore per il ciclismo internazionale. Una bellissima generazione di fenomeni sta dominando la scena. In molti si soffermano, giustamente sui tre fenomeni che stanno vincendo (quasi) tutto: Wout Van Aert, Mathieu van der Poel, Tadej Pogačar, sono i tre tenori del ciclismo moderno. Gare a tappe, grandi classiche, ce n’è per tutti i gusti. Ma c’è chi non si arrende a quella che può sembrare un triunvirato. È uno dei favoriti quasi sempre a fari spenti: Remco Evenepoel, il campione del mondo in carica, che ha rivinto la Liegi-Bastogne-Liegi. Tanto per gradire.

Il 23enne campione del mondo belga della Soudal-Quick Step si è imposto per distacco, dopo una azione solitaria di circa 30 km, facendo così il bis del 2022 dopo che Tom Pidcock era stato l’ultimo ad arrendersi: l’ultimo ad avere vinto la Liegi in maglia iridata era stato Moreno Argentin (1987), l’ultimo a firmare una doppietta consecutiva era stato Michele Bartoli (1997-1998). Per Evenepoel si tratta del successo numero 41 della carriera.

E adesso con la fine delle classiche di primavera, si va verso la stagione dei grandi giri. Una stagione che promette fuochi d’artificio prima ancora che inizi; una sentenza più che una promessa. E non può essere una questione a tre, ma a quattro, con il campione del mondo che grida a gran voce la sua presenza.

Carlo Galati

Saper perdere, saper vincere

A differenza di alcuni motti calcistici, che considerano la vittoria come l’unica cosa che conta, ci sembra piuttosto importante sottolineare e capire come le vittorie arrivino. Perché non sempre a vincere è il più forte in valore assoluto, ma può esserlo in quel momento, un momento fatto di diversi fattori che esulano dall’esclusiva valutazione della tecnica o della forza mentale. Holger Rune ha vinto, ha battuto Jannik Sinner in semifinale a Monte Carlo ma ha pagato per questo un prezzo molto alto.

Già un veterano del circuito, uno che di nome fa Stanislav, per tutti Stan, non aveva fatto mancare di sottolineare alcuni comportamenti del giovane danese, dentro e fuori dal campo. Atteggiamenti forse figli della sua giovane età, sicuramente attribuibili ad una grande considerazione verso se stessi, che travalica le normali abitudini di gente che vive di principi dello sport. E quello che abbiamo visto in campo non rientra in questa sfera.

Nella vita come nello sport, si può vincere e si può perdere ma il fulcro di tutto è come si vince, come si perde. Si può vincere e perdere con onore e rispetto, verso l’avversario, verso chi guarda, verso se stessi. Le patetiche scenette del giovane danese non appartengono alla sfera dello sport in generale, del tennis in particolare. Gli auguriamo mille vittorie e altre mille ancora, ma soprattutto gli auguriamo di modificarne la natura: vincere dimostrando una superiorità fine a se stessa è l’anticamera della mancanza di valori e senza quelli ogni vittoria vale solo l’istante in cui avviene. L’esatto opposto di un campione. Bonne chance giovane Holger.

Carlo Galati