Una (bella) storia italiana

In finale con l’Italia vanno anche questi due: Roberto Mancini e Gianluca Vialli, gemelli in campo, calciatori di grande stile, oggi artefici, ciascuno nel proprio ruolo, del “miracolo” di una Italia del calcio raccolta in frantumi e trasformata in pietra preziosa.
Nella gioia liberatoria di Vialli a fine partita, nella sua storia, nella sua sofferenza silenziosa, c’è qualcosa da raccontare che va oltre la solita narrazione un po’ banale del pallone dei grandi.

C’è la vita che da e toglie, le luci della ribalta e quelle della sala operatoria, i titoli dei giornali e i silenzi della solitudine, quella di chi combatte una battaglia fuori dal campo di gioco.

Roberto e Gianluca, Gianluca e Roberto.


E poi undici ragazzi in campo, a loro immagine e somiglianza.


In finale.

La grandeur italiana

L’Italia che sconfigge il Belgio non è la solita cinica Italietta che alza muri e si difende a oltranza: è una squadra che gioca al calcio, e lo fa bene, diverte e tiene in mano il pallino del gioco.

Una difesa solida, con Chiellini che cancella dal campo Lukaku, capace di offendere solo dagli undici metri; un centrocampo di qualità e di quantità regolato sulle frequenze del metronomo Jorginho; un‘attacco leggero, senza l’ariete da area di rigore, ma capace di regalare schemi e trame di gioco che non vedavamo da anni a queste latitudini.

Una bell’Italia, costruita a immagine e somiglianza del proprio allenatore, forgiata nel fuoco e fusa con l’acciaio, capace di vincere con due gol straordinari per bellezza e gesto atletico, grazie allo scugnizzo del “tiraggiro” e a un Barella che inventa una serpentina in stile Diego Armando.

Un’Italia che vince e convince, ben oltre il risultato striminzito che ci ha costretti a una sofferenza immeritata negli ultimi minuti di gioco.

Questi ragazzi hanno ridato un senso all’Italia pallonara, dopo anni di disamore per l’Azzurro e allenatori più simili a impiegati del catasto che a direttori d’orchestra.

Ci risvegliamo orgogliosi della nostra squadra e con il Tricolore in mano, pronto a sventolare ancora martedì, quando a Wembley ci toccherà la Spagna, storico avversario in ogni manifestazione continentale e mondiale.

E stavolta le Furie Rosse non partono favorite: abbiamo matato i numeri uno del ranking, il Belgio di Lukaku e De Bruyn, non possiamo certo aver paura della compagine lusitana meno dotata di talento degli ultimi dieci anni.

È inutile nascondersi: l’obiettivo è di arrivare a destinazione, passo dopo passo, fino alla fine.

Per scrivere la storia.

Mourinho, il figliuol prodigo

Il calcio ha bisogno degli antipatici per sopravvivere.

Per questo l’avvento di Mourinho sulla panchina tradizionalmente più bollente della serie A, nella Città peggiore per fare calcio, nella piazza dai mille giornalismi e dalle decine di trasmissioni radiofoniche monomaniacali 24 ore su 24, è una buona notizia.

Lo è perché negli stadi italiani svuotati dalla pandemia sembrano rimaste solo le urla disumane ad ogni falletto o spintarella, con ventidue ragazzotti viziati che precipitano a terra tarantolati e dolenti.

E allora ben venga lo Special One, con le sue fissazioni e l’ironia sprezzante, le sue guerre personali con i giornalisti, le mani in faccia ai calciatori pigri e indolenti.

Non sappiamo quanto durerà nella Babele Capitale e non sappiamo se supererà indenne la prima conferenza stampa.

Quello che sappiamo è che non vediamo l’ora di vedergli calcare ancora un rettangolo di gioco, mentre con un italiano maccheronico mastica la propria idea di calcio e la dispensa alla folla con l’aria del messia.

Il nostro calcio cloroformizzato, in attesa delle riforme strutturali e del ritorno sugli spalti dei tifosi, non può che trarre beneficio dai personaggi sopra le righe, dagli Ibrahimovic come dai Mourinho, a patto di perdonare loro qualche errore veniale.

L’avventura romana di José “espulso” dal calcio inglese ci fa venire in mente gli occhi lucidi ed eccitati del nano Gimli ne “Il Signore degli Anelli”, pronto a lanciarsi nell’ennesima impari battaglia: “Certezza di morte, scarse possibilità di vittoria. Che cosa aspettiamo?”

Welcome back home, José.

SuperLeague: la banalità del Male

C’è poco da esultare per il probabile naufragio del progetto Super League, affondato dalla inadeguatezza sostanziale e comunicativa degli stessi che lo hanno pensato.

La romantica rivoluzione digitale che per quarantotto ore ha spalato montagne di letame sulle corazzate pallonare continentali è solo la punta dell’iceberg: il calcio del Real, della Juve, del Milan, del Manchester United era già un bubbone ipertrofico, prima della “cura di fine mondo” della Super League, viveva di fluttuazioni azionarie, di speculazioni, di diritti televisivi venduti alle aste “truccate” delle Pay Tv.

E lo sapevano tutti.

Dalle vergini immacolate della FIFA ai sepolcri imbiancati dell’UEFA, fino ad arrivare a un De Zerbi qualsiasi, che oggi recita la parte del Masaniello con la casacca del Sassuolo, ma domani, con ogni probabilità, venderebbe l’anima sua e della sua settima generazione ai miliardi del fondo Elliott o alle scatole cinesi dell’Internazionale pur di sedere su una panchina prestigiosa.

È il calcio moderno, come lo chiamano con disprezzo gli Ultras.

Una roba che andrebbe governata da manager all’altezza, anziché da gentucola che compra i voti dei Paesi del Terzo Mondo pur di assegnare i Mondiali a Nazioni con poche o nessuna legge seria sugli appalti negli Stadi.

Gente che avrebbe dovuto lavorare per portare sempre più spettatori negli Stadi, parallelamente a una fruizione moderna del fenomeno-calcio a livello globale, spettacolo-sport, esattamente in questo ordine.

Lezioni da nessuno di “lorsignori”, per pietà.

La pandemia ha accelerato, nelle testa e nelle tasche dei Florentino Peres e degli Agnelli, quel processo di riforma della Coppa dei Campioni (romanticismo per romanticismo) al quale si lavora da anni, senza mai arrivare a una conclusione che contemperasse adeguatamente l’interesse economico dei padroni, la modernizzazione del fenomeno calcistico e la “puzza di piscio”, scusate il francesismo, dei cessi di ogni stadio, in ogni parte del mondo.

Il Covid-19 ha fatto nascere e morire la Super League, con l’unico merito di aver scoperchiato il pentolone dell’ipocrisia, dentro al quale sguazzano tutti quelli che hanno responsabilità di “governo” del calcio mondiale, generali di un esercito che sarebbe nulla senza l’indotto stramiliardario delle super sorelle, ma sarebbe ancora meno senza la dimensione “glocal” del tifo, della passione, degli stadi pieni, delle generazioni che si tramandano rituali e feticci di un amore inspiegabile, difficile da comprendere, resistente anche alle porcherie più evidenti, ben prima della ipotesi Super League.

Il Re è nudo, il pallone sgonfio e la base digitale degli spettatori e dei tifosi inorriditi segna una vittoria di Pirro.

La vera battaglia per salvare quanto di buono c’è ancora in questo mondo, parafrasando il dialogo fra Frodo e Samvise Gamgee nel Signore degli Anelli, deve ancora cominciare e vale la pena di combatterla, certo.

Provando, però, a non farsi guidare dal fariseismo di chi ha lucrato fino a ieri sulle storture del sistema e oggi lucida la lama della ghigliottina.

You’ll never walk alone, guys, ma fino a un certo punto.

Anche gli Dei si scansano

Il miglior calciatore del mondo, uno che guadagna 3582 euro l’ora, 85.968 euro al giorno, 2,58 milioni di euro al mese e 31 milioni di euro l’anno, si scansa sul calcio di punizione, salta e da le spalle all’avversario che calcia, per evitare di prendere una pallonata in faccia.

È uno scherzo?
No, è la firma sul peggior affare del secolo: Ronaldo si sarebbe ripagato solo andando avanti, molto avanti, in Champions per due anni.

E sono state due eliminazioni agli Ottavi.
Per la Juve è una debacle che va ben oltre l’ennesima delusione europea: il portoghese era l’ideale ciliegina sulla torta di una Società stufa di vincere e stravincere solo in Italia e desiderosa di fare quel passettino verso la consacrazione continentale, l’investimento che si ripaga da solo, perché nessuno poteva immaginare quello che è accaduto.

Meglio, molto meglio in Europa la Juve pre-Ronaldo, senza la divinità dai muscoli scolpiti ma più squadra, più collettivo, più Juve.

Ronaldo si scansa e si scansa la Juve, lasciando spazio a un Porto per nulla trascendentale, ma solido e voglioso, nei 180 minuti superiore ai bianconeri.

Orfani di Cristiano. Spiazzati da Cristiano. Oltre Cristiano, con un danno anche economico difficilmente quantificabile.

La maledizione della vecchia Coppa dei Campioni resta incollata alle maglie bianconere anche nell’era Champions, con l’affare Ronaldo, in negativo, a renderla ancora più inarrivabile.

Il migliore di tutti non fa la differenza fuori dall’Allianz Stadium (e dintorni), per cui non serve a nulla, e fa specie dirlo guardando alle cifre del suo ingaggio e alla montagna di denaro sulla quale è assiso.

Adesso alla Juve tocca cambiare, ricominciare, reinventare.

Senza Ronaldo?

È probabile, magari rincorrendo i petroldollari degli Emiri per evitare il tracollo economico e mettere un po’ di fieno in cascina.

Foto di rito con la nuova maglia, da lanciare lontana per mettere in mostra la “tartaruga”, qualche zero su un contratto fuori scala e il Circo riparte.

Anche senza la maglia bianconera e senza la necessità di ripararsi la faccia in barriera su calcio di punizione.

A quelle latitudini non ce ne sarà bisogno, la Champions non si gioca.

Bruno Pizzul, l’uomo che ha raccontato il calcio (come nessun altro)

Non esiste appassionato di calcio, appassionato di sport che non riconosca quella voce così particolare da risultare unica. Le notti magiche, i giorni del mondiale americano, i mercoledì delle coppe Europee; quelle notti in cui le partite erano trasmesse dalla Rai e la partita di cartello sempre era la sua. Uno dei motivi per il quale abbiamo amato il calcio, soprattutto il calcio di quel periodo, è stato sicuramente Bruno Pizzul, che oggi compie 83 anni.

Cinque Mondiali, quattro Europei, mille emozioni e tanti aneddoti: dai lapsus (pochi) ai gol folgoranti, dal dolore della sconfitta di Pasadena, alle prodezze di Van Basten con l’Olanda e a quelle in azzurro di Robi Baggio, l’uomo dei momenti magici, tutti raccontati con la maestria e la classe che non appartiene più ai telecronisti di oggi, diventati divi per forza, mettendo se stessi prima del racconto, il proprio personaggio prima della storia. Pizzul è stato il cantore classico del calcio, l’uomo solo al comando, senza alcun “esperto” o ex giocatore a supportarlo. Solo con la sua profonda conoscenza e con la sua imprescindibile voglia di comunicare emozioni attraverso un microfono riuscendo davvero ad entrare nelle case di tutti gli italiani.

Voce della Nazionale Italiana dal 1988 al 2002 ha il solo cruccio di non aver raccontato un titolo mondiale azzurro. E’ stata la voce dell’Heysel, l’unica in grado di dare notizie dal campo, con un compito che andava oltre quello di cantore di gesta sportive. Ha raccontato poi, di esser consapevole del momento e del ruolo, dovendo gestire la propria emozione, per non allarmare di più di quanto le immagini non stessero già facendo. E’ parte della storia degli ultimi 30 anni di questo Paese e la sensazione è che non sia mai andato via da quel microfono. E’ stato ed è il Maestro dei telecronisti; è vero non ha mai raccontato un grande successo della Nazionale ma questo non lo esime da essere stato uno dei più grandi, se non il più grande. E poi diciamocelo in tutta onestà: non c’è mai stato più nessun altro che abbia mai pronunciato il nome di Roberto Baggio come faceva lui. Uomini di calcio e destini incrociati, fin da sempre. Ma come Roberto, anche Bruno è nel cuore di chi ha gioito, sofferto, riso e pianto insieme e con lui. Destini incrociati.

Carlo Galati

Il giorno in cui il cuore di Davide si fermò

“Dice che era un bell’uomo
E veniva, veniva dal mare
Parlava un’altra lingua però sapeva amare
E quel giorno lui prese mia madre sopra un bel prato
L’ora più dolce prima d’essere ammazzato”

Non veniva dal mare ma dalla profonda provincia bergamasca, ma era una bell’uomo, una bella persona. Non abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, ma le tante, troppe, testimonianze in tal senso non lasciano alcun dubbio. Sono passati tre anni da quando quel giorno ad Udine il cuore di Davide Astori decise di fermarsi e con esso si fermò tutto. Per una volta lo show non andò avanti.

Parlava la lingua del bel calcio unito anche ad una signorilità e ad un’eleganza, in campo e fuori, che ne hanno amplificato il dolore. Merce rara in uno sport che vogliono sempre più lontano dalle persone e dai sentimenti, ma che ha delle lunghe radici che affondano nella passione e nei sentimenti di quello che romanticamente viene definito il “calcio di altri tempi”. Ecco, apparteneva a quel calcio Davide. Un marziano di normalità in un mondo di (finte) superstar, un esempio di uomo in un mondo di prime donne.

Ecco perché la sua morte ha colpito tutti, perché quella faccia da bravo ragazzo non poteva non suscitare emozioni positive; anche non conoscendolo, non potevi non apprezzarlo, aldilà di ogni rivalità sportiva. Sono passati tre anni ma sembra ieri ed il perché è facilmente intuibile. Gli eroi sono tutti giovani e belli. Ci piace che sia così; consegnato all’eternità dello sport in tutta la sua bellezza.

Carlo Galati

Riabituarsi al bello del calcio

Si è sempre più propensi a pensare che nel calcio ormai non ci sia più spazio per gesti di lealtà e di correttezza. Abbiamo tutti negli occhi quelli che vengono sempre definiti come atteggiamenti antisportivi, colpa o responsabilità anche di chi, come noi, scrive e racconta lo sport. Una sorta di snobbismo al contrario secondo il quale il calcio ormai non sia più da considerarsi una disciplina con valori morali oltre che economici e di interessi vari, alle volte (ormai spesso) anche politici.

Ci stupiamo quando accade il contrario. Ci stupiamo quando Andrea Belotti, capitano del Torino, durante il primo tempo della partita con l’Atalanta, dopo un presunto fallo subito si rialza e dice all’arbitro, no! Non è fallo. L’ammonizione a Romero, difensore nerazzurro, viene graziata dall’arbitro Fourneau, che torna sui suoi passi e dopo una stretta di mano si riprende subito a giocare. E’ un gran gesto, è vero. Il gesto di un capitano che nonostante il passivo di 3-0 e nonostante la sua squadra non navighi nelle buone e serene acque del centro classifica, ha l’onestà intellettuale di dire il vero, anche contro l’interesse personalistico. Ecco, il calcio è anche questa roba qui. Non solo business, non solo il cieco accanimento verso l’obiettivo sportivo ad ogni costo, anche a costo di quei valori sportivi che tutti gli atleti hanno o dovrebbero avere. E’ un gesto da uomo di sport e da capitano. Ma, non deve essere isolato.

Bisogna riabituarsi al bello, al giusto. Ridare al calcio anche quel giusto valore pedagogico, perché il fair play esiste e la platea che lo guarda, lo commenta, lo vive è fatta anche di giovani uomini che seguono esempi. E poi si sa, la giustizi divina esiste e premia. Sarà un caso che dopo questo gesto e contro ogni pronostico il Torino abbia recuperato, in trasferta, lo svantaggio e pareggiato la partita per 3-3? Non ne siamo certi, ma è bello pensare che possa essere così.

Carlo Galati

PAOLO ROSSI, IL RAGAZZO DELL’82

Paolo Rossi non era un ragazzo come noi.
Non lo era nell’82, quando in una torrida estate italiana scoprimmo speciale una squadra normale, forgiata dalle sofferenze del girone di qualificazione e dalle immancabili polemiche.
Ci perdemmo negli ipnotici cerchi di fumo delle pipe di Bearzot e Pertini, negli effluvi dell’alcol canforato dei polpacci di Diego Armando, divorati dalla marcatura a uomo di Claudio Gentile.
E guardavamo esterefatti le lacrime di milioni di brasiliani, belli da morire, increduli di fronte a quelle maglie azzurre inopinatamente planate sui quarti di finale.
E sullo sfondo c’era lui.
Prima piccolo, fragile, con quel fisico così lontano dallo stereotipo dell’attaccante moderno.
Poi sempre più decisivo, micidiale cecchino d’area di rigore, in quello stato di grazia che accarezza e coccola solo i più grandi.
Paolo Rossi, l’arci-Italiano, con quel cognome che oggi scambieresti per un fake sui social, divenne eroe, a suon di gol, dallo psicodramma sudamericano alla passerella finale contro i crucchi, in una eterna Italia-Germania.
Paolo Rossi, il ragionier Rossi Paolo, l’eroe del Mundial, mise in bacheca anche il Pallone d’Oro, privilegio concesso ai più forti, che alcuni fortissimi non hanno mai ricevuto.
Paolo Rossi, commentatore televisivo cortese, démodé sui palcoscenici del calcio urlato, pronto a scappare verso il suo “buen retiro” nella campagna toscana, fra ulivi, vigne e silenzi.
Il male lo ha scovato lì, senza abbandonarlo più.
E il destino lo ha rimesso in campo, qualche giorno dopo Maradona.
Forse sarà stato lo stesso Diego, pensando a quel Mundial.
Datemi Paolo Rossi, ne farò capocannoniere sui campi del Paradiso.
Col commento di Nando Martellini e Victor Hugo Morales.

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Al di sopra del bene e del male

Adieu Diego, il calcio al di sopra del bene e del male

Mille nomignoli, ognuno legato a un aspetto della sua vita, che coincide con il calcio, senza soluzione di continuità.
Perché Diego è stato il calcio.
Lo è stato anche nei momenti peggiori, quando combatteva coi propri demoni; esattamente come George Best, campione maledetto, morto nello stesso giorno, perché anche al destino piace giocare al calcio con i migliori.
Diego è stato al di sopra del Bene e del Male, sul campo più che fuori: un funambolo irridente e sprezzante, con un rapporto carnale con la sfera di cuoio.
Ne faceva ciò che voleva, divertente e letale, un Pifferaio di Hamerlin che portava a spasso i difensori prima di mandarli in terapia.
Diego è stato Napoli e le sue mille contraddizioni.
È stato il meglio di Forcella e il peggio del Vomero, riscattava gli scugnizzi portandoli in paradiso, mentre i demoni dei quartieri-bene si attaccavano alla sua mammella d’oro.
Ha pagato Diego, morendo giovane, ben prima di oggi.
Certo, “muor giovane chi è caro agli dei”, ma Diego aveva esaurito la propria missione terrestre nello stesso minuto in cui ha abbandonato il calcio.
Tre fischi, lo spettacolo è finito.
Sul campo Diego è stato tutto, amore eterno, piacere assoluto.
E questo nessuno potrà mai toglierglielo.
Neppure il Diego umano, troppo umano.

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