Postcards from Tokyo #3

La ricercatrice d’oro

Avere la testa, avere le gambe. Non è un sillogismo banale nel caso di Anna Kiesenhofer, neo campionessa olimpica di ciclismo su strada. Atleta part-time, l’austriaca è una ricercatrice ed è questo il lavoro che le dà da vivere, non il ciclismo; almeno non fino ad oggi. Laureata in matematica a Vienna tra il 2008 e il 2011, Master a Cambridge (2011-2012) e il Dottorato al Politecnico della Catalogna nel 2016, anno in cui ha iniziato a praticare ciclismo in modo più professionale dopo essersi cimentata nel triathlon e nel duathlon, ora è una ricercatrice alla Ecole Polytechnique Federale di Losanna dove studia le equazioni differenziali parziali non lineari che sorgono nella fisica matematica. Insomma, cosa volete che sia una fuga di 138 km in solitaria a confronto?

Unica rappresentante del suo Paese, Anna ha preparato tutto da sola: «Ho studiato la prova maschile e deciso la mia tattica di gara. Non ho allenatori, tecnici, preparatori, né nutrizionisti che mi seguono, mi occupo io in prima persona dei miei allenamenti, di ciò che mangio e di come gestirmi in corsa. Non avevo la radio quindi non ero sicura del vantaggio che avevo, in più non sapevo se gli aggiornamenti che ricevevo erano affidabili».

 La storia di Anna Kiesenhofer è la storia di un’atleta che con coraggio ha dimostrato quanto possa essere reale il concetto di Dual Career, conciliare studio/lavoro e sport ad alti livelli. Certo, probabilmente non potrà girare per il mondo da professionista della bicicletta e forse non lo vuole neanche, non vuole lasciare e non lascerà quei numeri che l’hanno aiutata ad arrivare dov’è arrivata, vincendo quello che tutti sognano, vincendo quello che non tutti possono avere. Il messaggio che ha dato a tutti è stupenda intriso della magia e dello spessore che un’Olimpiade sa dare, scavando verso il proprio significato più profondo. Un significato che questa splendida ricercatrice matematica di 30 anni ha colto nella propria essenza, regalandosi un oro olimpico che solo lei sa quanto vale.

Carlo Galati

Pogacar padrone del Tour

Il Tour de France ci consegna un campione assoluto, con tre fiocchi: giallo, bianco e a pois. Sì, perché il bis proietta Tadej Pogacar nella leggenda. Lo scorso anno lo sloveno aveva vinto, a sorpresa, con una zampata nella cronometro conclusiva.

Quest’anno invece è stato un dominio assoluto, dall’inizio alla fine. Un Tour vinto con distacchi indicibili: a soli 22 anni il corridore della Uae Emirates (con 2 vittorie) ha dominato la competizione rifilando 5’20” al secondo classificato, Jonas Vingegaard, e 7’03” al colombiano Richard Carapaz.

Nessuno, nemmeno Merckx e Hinault, avevano già vinto due Tour alla sua età. Nessuno a quell’età ha vinto due tappe di montagna in maglia gialla come ha fatto Tadej sui Pirenei. Insomma un predestinato, per intenderci uno che ha le carte in regola per sedere al tavolo dei grandissimi di questo sport.

Carlo Galati

Fortunato Zoncolan

Ci sono delle salite che valgono una vita, perfetta simbiosi della difficile scalata verso quella vetta che punta dritto verso il cielo, stagliandosi all’orizzonte e regalando la gloria eterna a chi le doma. Una di queste è lo Zoncolan, emblema di tutto ciò che è il ciclismo: sangue, sudore, polvere e lacrime. 

Le lacrime di gioia all’arrivo sono di Lorenzo Fortunato, giovane ciclista guidato dall’ammiraglia da Ivan Basso, uno di quelli che questa montagna l’ha fatta sua. Martirio alpino con le sue durissime pendenze è considerata dai ciclisti la salita più dura d’Europa, parola di chi il ha scalato il Ventoux, il Mortirolo o l’Angliru.

Una vittoria inaspettata, quella di Lorenzo, perché su questa montagna, su questo importante snodo del Giro, ci si aspettava un’impresa da ricordare di uno dei big. L’impresa è stata compiuta e questo è bastato per dare a Lorenzo quella gloria che farà sì che il suo nome venga iscritto nella pietra sacra del Kaiser a lettere cubitali. Lorenzo, Fortunato ad esserci riuscito.

Carlo Galati

Dumoulin, il coraggio di dire basta

Giovani, forti ed invincibili. Detta così, sembrano tutte rose e fiori. Certo, si è consapevoli dei sacrifici e dell’impegno che stanno dietro al lavoro di un atleta per raggiungere la vetta. Quella vetta che però, per alcuni, rappresenta un limite oltre il quale si può essere schiacciati o travolti.

Molte volte, ci sentiremmo di dire sempre, è una lotta interna che ti consuma fin da giovanissimo. Amare e odiare la propria passione più grande: è possibile? Lo è, come per tutti i grandi e travolgenti amori della vita.

Può capitare quindi che si decida di mollare dopo aver vinto tutto, o quasi. Dopo aver raggiunto quel punto così alto da non sopportare più le vertigini. È successo a Mark Spitz che a soli 22 anni e dopo aver vinto sette medaglie d’oro nel nuovo, a Monaco ‘72, decise di ritirarsi.

È capitato al più grande tennista della storia (no, non Roger…lui fa un altro sport), Bjorn Borg che dopo 11 Slam e a soli a soli 26 anni, all’apice di una carriera che sembrava non potergli regalare niente più, nessun traguardo da raggiungere e aggiungere a quelli già in cascina. O almeno di questo era convinto lo stesso Borg, più che altro individuando il perché di tale decisione nell’assenza di motivazioni, perché in campo avrebbe potuto continuare a vincere…senza se e senza ma. Lui aveva semplicemente detto stop a quel tipo di vita.

È successo di recente a Tom Dumoulin che a solo 30 anni e dopo aver vinto un Giro e un mondiale a cronometro ha detto stop. A tempo indeterminato e senza (per ora) ripensamenti. “Non ero felice da oltre un anno, mi sono tolto un peso”. Ecco, dire addio per loro ha significato più o meno questo: riprendere per mano la propria vita e tornare a deciderne. È una scelta, dura e dolorosa. Ma da rispettare e soprattutto da non giudicare.

Carlo Galati

Buon compleanno, Pirata.

Le braccia levate al cielo e gli occhi socchiusi, la bandana slacciata che finisce sull’asfalto, per scrollarsi di dosso la fatica e il sudore: l’istantanea di Marco Pantani che amiamo di più è questa, quando ogni montagna smetteva di soffrire sotto i colpi dei suoi pedali e i saltelli da capriolo lasciavano spazio al rapporto rilassato del dominatore, pronto a godere del boato della folla assiepata da giorni in prossimità dell’arrivo. Facciamo fatica a guardare il ciclismo da quel maledetto 14 febbraio, quel San Valentino che ci vide, innamorati della bellezza, traditi dalla morte improvvisa del campione assoluto.

Facciamo fatica a vedere i passisti-scalatori che vincono i grandi Giri, mentre noi aspettiamo che arrivi un camoscio glabro a scattare, due, tre volte, fino a sfiancare gli avversari, nutrendosi di salite e di pendenze assassine, inarrivabili per i comuni mortali. Viene voglia di spegnere la televisione durante l’assalto al Mortirolo o all’Alpe d’Huez. Senza Pantani sembrano tappe di trasferimento, percorsi “neutralizzati”.

Aspettavamo anche ore, guardando i gregari spaesati che provavano a fare l’andatura, spesso per dovere di firma, perché tanto poi “scatta Pantani”, lo stesso, con qualunque media e a qualsiasi distanza dal traguardo. Marco aveva l’istinto del campione assoluto e una fretta di mollare gli avversari pari solo all’irrequieta insofferenza per la vita da predestinato.

Non è facile reggere la pressione quando il tuo destino è racchiuso in migliaia di chilometri al giorno e l’altare della gloria nella vittoria sfiora la polvere del pavimento dopo una sconfitta. Puoi chiamarti anche Pantani, ma sei un uomo, con le sue debolezze e il cuore fragile come il cristallo. E nell’eterna lotta fra il bene e il male, anche i cavalieri più navigati lanciano assalti che i loro scudi non potranno mai reggere.

In quelle provette manipolate, nell’assenza di scrupoli di faccendieri e finti amici, in quella meravigliosa debolezza di un supereroe con la bicicletta, c’è tutta l’essenza della vita.

Marco non ha retto, ma chi ha cercato di addossargli ogni colpa si è schiantato contro l’umanità del Mito e la vendetta della storia, che torna sempre e non perdona le semplificazioni. Scatta, Pantani, e come al solito si lascia alle spalle il fango che schizza dalle ruote dei suoi nemici e dei finti amici.

Noi non giudichiamo, ma come automi rimettiamo in loop le immagini delle sue imprese, un balsamo per l’anima e per “l’amor che move il sol e l’altre stelle”.

Quello per lo sport.

Buon compleanno, Marco.