
E adesso chiedetegli scusa. Chiedete scusa ad Alex Schwazer, colpevole di aver sbagliato una volta, averlo ammesso e aver pagato, come giusto che fosse. Come spesso accade, si è andati oltre. Lo si è messo alla gogna una seconda volta, accusato proprio quando stava rialzando la testa, sognando e preparando le Olimpiadi di Rio. Tracce di testosterone trovate nelle sue urine, figlie di un controllo nel giorno di Capodanno del 2016, un controllo effettuato con il solo scopo di incastrarlo. L’atleta ha sempre negato di aver fatto uso di sostanze dopanti in quel periodo contestando formalmente la validità del test e dichiarandosi vittima di un complotto internazionale. Complotto che, ora, alla luce del decreto del Gip, diventa qualcosa di più di un’ipotesi investigativa. Le contro-accuse dell’ex marciatore, infatti, potrebbero non essere così distanti dalla realtà viste le anomalie riscontrate dal colonnello del Ris di Parma, Giampietro Lago, sulle provette di urine (conservate nel laboratorio Wada di Colonia) del corridore.
Nessuno gli restituirà più le sofferenze e il dolore di un’avventura olimpica strappatagli all’ultimo, nell’estremo tentativo di ottenere il via libera del CIO per poter partecipare alle Olimpiadi. Lo ricordiamo a Rio, da solo ad allenarsi sulla pista ciclabile di Copacabana come un corridore amatoriale, senza protezione, senza l’appoggio di nessuno, senza nessuna bandiera o federazione a tutelarlo, potendo contare solo su se stesso, come nella migliore tradizione di chi marcia per 50 km, di chi affida alla fatica estrema il pass partout per la gloria olimpica, come a Pechino. Era tra i favoriti, con un passo medio al km che lo avrebbe di sicuro portato sul podio. Non sappiamo se su quel poi alla fine ci sarebbe salito o meno, la storia dello sport non si fa con le previsioni ma con i fatti.

I fatti però parlano chiaro e dicono che quella partecipazione gli fu ingiustamente tolta e adesso dopo sei anni ottiene finalmente giustizia, ma niente gli restituirà quello che ha perso per colpa di chi non è dato ancora sapersi, di sicuro qualcuno che ha gli ha voluto del male e che ha voluto del male allo sport.
Umiliato, dileggiato, accusato come forse nessuno altro. O forse sì. Come Marco Pantani, vittima anche lui della macchina del fango e delle macchinazioni volte a distruggere il campione e l’uomo. Quella volta ci sono riusciti, oggi no. Oggi ha vinto la giustizia e la pulizia di un ragazzo che ha lavato con le lacrime l’onta del doping e che merita di essere riabilitato e di rientrare dalla porta principale dei campioni olimpici italiani. Glielo dobbiamo tutti.
Carlo Galati