Il paradiso (non) può attendere.

L’Italia del rugby alla pari coi maestri francesi.

A un passo dal toccare il cielo con un dito.

Anzi, a una meta da una vittoria che sarebbe stata persino meritata contro i “galletti” francesi, una delle Nazionali più forti del mondo e candidata alla vittoria nella prossima rassegna iridata.

Dopo la sbornia dei test-match tutti aspettavano al varco gli uomini di Crowley, per capire se i progressi visti fossero la conferma di una mentalità differente e di una consapevolezza nuova o l’ennesimo fuoco di paglia.

E oggi abbiamo visto tutto: due errori di Varney, costati carissimi, assorbiti dalla squadra, brava a ripartire subito con una prestazione corale che dal minuto venticinque del primo tempo è apparsa a tratti straripante, soprattutto se parametrata alla forza e all’esperienza degli avversari.

Precisi sui punti d’incontro e bravi ad esplorare gli spazi, abbiamo un po’ sofferto la fisicità francese, oltre alla loro maggiore dimestichezza nel gestire i momenti cruciali delle partite.

Un secondo tempo punto a punto, con un finale vietato ai deboli di cuore, in quei minuti che in passato ci “regalavano” il crollo fisico degli Azzurri.

E invece abbiamo finito lì, sui cinque metri, a pochi centimetri dalla definitiva consacrazione al livello top del rugby mondiale, centrando anche il punto di bonus.

Ancora qualche ritocco, maggiore precisione e una mediana meno “svagata” e questa Italia, come successo oggi contro i transalpini, potrà giocarsela per vincere.

Il paradiso rugbistico è qui, finalmente a portata di ovale.

Greg, la divinità dell’acqua

Educato, bello, sorridente, vincente: mai visto un “cannibale” così gentile, capace di sbranare gli avversari con l’eleganza di chi quasi si schernisce per aver conquistato in sequenza un oro nei 1500 stile libero, un bronzo nella Staffetta mista 4×1.5km acque libere, un argento nella 5km acque libere, un oro (con Acerenza secondo) nella 10km acque libere.

Disumano.

L’orgia di informazioni sui social, un paradosso, rischia di relegare sportivi mitologici a mero fenomeno “mordi e fuggi”: qualche ora di esaltazione collettiva, milioni di foto, spezzoni video e poi sotto con la prossima notizia acchiappa-click, senza neppure il tempo di un loop o di un fermo-immagine.

E invece Paltrinieri merita ben altro.

Merita le sfumature di colore “catodiche” di Mark Spitz e dei suoi sette ori di Monaco ‘72, con il loro fascino romantico; merita il bianco e nero delle imprese consegnate alla storia di atleti di ogni disciplina, quando la fatica non era una ruga super definita sul viso, ma la sommatoria di movimento sbilenchi e immaginazione, immagini sfocate e calde di tensione agonistica.

A nulla valgono i paragoni, ma sarebbe bello che fra qualche anno ci si ricordi di Greg e delle sue quattro fatiche di Budapest come la storia disi ricorda di Coppi quando scalò da solo la Maddalena, il Vars, l’Izoard, il Monginevro ed il Sestriere e giunse a Pinerolo con 11’52” su Gino Bartali.

Dodici medaglie mondiali, dodici, una maledetta mononucleosi che gli preclude il bottino pieno a Tokyo, dove vince un argento incredibile negli 800, ma gli lascia pur sempre una medaglia per metallo nel palmares a cinque cerchi, oltre a ben tredici in Europa: un medagliere in continuo aggiornamento, visto che adesso Greg ha deciso che le piscine sono troppo piccole, troppo umide, troppo chiassose.

Per questo ha scelto di nuotare nelle acque libere, allungando i chilometraggi senza diminuire la formidabile acquaticità e il senso della vittoria.

Scivola, Greg, scatta, attacca, e sembra sorridere dentro quell’elemento naturale che gli fa da liquido amniotico, lo protegge e lo nutre.

Dal bianco e nero alla dissolvenza, fino al burn-in, quel fenomeno che imprime sui televisori di ultima generazione l’ombra di una immagine troppo persistente.

Ecco, lasciatelo lì, in ogni televisore, per ricordarci che un altro Paltrinieri chissà quando rinascerà, con il suo elogio della lentezza e la serenità di chi non deve chiudere tutto nei pochi secondi di un 50 metri stile libero, ma ha tempo per farsi ammirare in vasca e nel mare, novello Poseidone, solo più sinuoso e sbarbatello.

Lo davano per finito, ma sfiniti siamo noi dopo l’ultima fatica della dieci chilometri, stravolti da una sfida entusiasmante ed increduli: Greg ha vinto la quarta medaglia in quattro giorni, mentre noi boccheggiamo fra divano e telecomando.

Lasciate stare le celebrazioni social, prendete carta, penna e calamaio, vergate su carta pergamena quest’impresa, seppiate le immagini perfette dei vostri televisori 8k: quando i vostri figli e le vostre figlie troveranno questi cimeli, in libreria o dentro a un cassetto, capiranno cosa sia l’eternità del mito, anche nello sport.

Dopo i mitologici Yam, dio del mare, Manannan Mac Lir, dio del mare e delle tempeste, Dakuwaqa, il Dio Squalo e proprio Poseidone, Dio delle Acque e del Mare, il pantheon delle divinità acquatiche ha un nuovo protagonista: Greg Paltrinieri, venerabile divinità delle piscine e delle acque libere.

Acqua azzurra, acqua d’oro

Azzurro come il cielo di Budapest, azzurro come l’acqua della piscina, azzurro come il colore del secondo posto nel medagliere di questo incredibile mondiale in terra magiara.

L’Italia dei poeti, dei Santi e dei navigatori, si riscopre terra di nuotatori e nuotatrici, collezionisti di mettalli pesanti, con il sigillo imperiale dell’oro nella 4×100 dei Misti.

È difficile fare una graduatoria della medaglia più bella o dell’impresa che resterà negli annali: è quella di Ceccon, baffetto vintage e carta d’identità da maggiorenne di una volta, primatista del mondo dei 100 dorso?

O quello di Martinenghi e Pilato, ranisti d’Italia trionfatori nei loro 100?

È quella di Greg Paltrinieri, il capitano, dato a 26 dagli scommettitori dopo la delusione degli 800 e capace di disintegrare gli avversari, nuotando addirittura su livelli da primato del mondo?

Oppure è la medaglia-termometro della 4×100 mista, quella che rappresenta la cartina al tornasole del movimento natatorio di una Nazione?

Cinque istantanee di un trionfo, impossibili da mettere in fila con una graduatoria, perché rappresentano nell’insieme la capacità organizzativa, la tradizione, le metodiche di allenamento, la vocazione, custodite in anni di successi e di personaggi nelle vasche da 25 e da 50 metri, culminati oggi nella migliore spedizione mondiale di sempre.

Una Federazione Nuoto capace e tetragona, in un’Italia che negli anni si è riempita di piscine e che dalle vittorie, e dal marketing del successo di atleti e atlete in costume da bagno, ha costruito una immagine vincente e una formidabile capacità di generare campioni e campionesse a ogni ciclo.

Iride, oro e Tricolore: il caleidoscopio di immagini e sorrisi baciati dal cloro non riempie solo la piscina del nuoto, ma ha fatto capolino nella vasca dell‘artistico, con ben cinque medaglie, continuerà nella pallanuoto, con Settebello e Setterosa ai Quarti, nuoterà in acque libere ancora con Greg e i suoi fratelli e sorelle.

Un’Italia giovane, bella, sinuosa e vincente, nella continuità di un movimento che funziona.

Avanti, e grazie, ragazzi e ragazze di Buda!

Poeta, giornalista, gentiluomo.

Gianni Clerici, aedo del tennis e dello sport, è stato molto più che un giornalista.

Trascorsa qualche ora dalla morte del novantunenne giornalista e scrittore comasco, le immagini convulse e meravigliose della sua carriera hanno riempito pagine di giornale e televisioni, ribaltate sui social dal piglio nostalgico di chi ha vissuto un’altra era del giornalismo, un’altra era della televisione, un’altra era del tratto di penna che accompagna la voce e la completa, fino a diventare immagine.

Clerici non è stato il Gianni Brera del tennis; non c’è alcun bicchiere di ottimo vino o un video graffiato in 8 millimetri a rendere inmortale una icona novecentesca; semmai ci ricorderemo in uk fermo immagine di un istrionico vecchietto capace di cavalcare la modernità, prestando voce e immagine alla tempesta perfetta della telecronaca televisiva.

Lui e Rino Tommasi non sono preistoria da teche, ma milieu professionale al quale attingere per capire come si possa raccontare una pallina che cambia sempre campo con garbo, eleganza, ironia, sapiente dosaggio di competenza assoluta applicata al vivere ardendo dell’ex tubo catodico, lo stesso che tutto riduce in cenere alla velocità della luce.

Racconto, parole, immagini, passione, sferzante ironia.

Clerici vincerebbe anche domani la sfida dell’on demand, senza aggrapparsi ai tre quarti di nobiltà del proprio pedigree.

Le fragole di Wimbledon non avranno più lo stesso rosso intenso e il bianco obbligatorio delle divise dei tennisti e delle tenniste impallidirebbe ancora senza ascoltare più la voce del tennis; quella voce che all’inizio non piaceva al Berlusca, ma resterà lì, a fare audience e le fortune del tennis raccontato, con lo slang di Rino, l’Americano, e le dotte e infinite divagazioni di Gianni.

Un argomentare che non stancava mai, neanche di fronte a mille scambi da fondo campo fra Gattone Mecir e Mats Wilander, tanto l’eloquio forbito incontrava la simpatia irresistibile e la disarmante bravura.

“Il più grande conoscitore di tennis del mondo”, autore di tomi che resteranno imprescindibili per chi, a capo chino, vorrà orientarsi fra storia, costume e leggenda della racchetta: da “500 anni di tennis” fino alla storia di Lenglen, “Divina”, passando per “Il tennis facile” e “Il tennis nell’arte”.

Il giornalista gentiluomo ha traghettato lo sport da Circoli nell’immaginario popolare, difendendone la nobiltà e l’alterità senza supponenza.

Avrebbe voluto essere accarezzato da McEnroe, ha descritto come nessuno doti, vizi e virtù di Nastase, Borg, McEnroe, Panatta, Lendl, fino ai giovani Nadal e Federer; ha cantato le sfide sull’erba di Martina Navratilova e Chris Evert, ha segnato un’epoca, forse due, più probabilmente tre.

Immaginando il tennis come la Divina Commedia, Clerici sarebbe stato Virgilio, capace lungo novantuno lunghi anni, fra inferni, purgatori e paradisi della quotidianità, di diventare abbastanza adulto da poter fare da guida a chiunque volesse capirci qualcosa di tennis.

La partita è finita, al quinto set, come doveva finire.

In gloria.

Gioco, partita, incontro, Clerici.

Nel deserto del Bahrein rifioriscono due rose Rosso Ferrari

I test lo avevano detto, in maniera equivocabile, ma novecento giorni senza vittorie inviterebbero alla prudenza anche gli inguaribili ottimisti.

Nel deserto dorato del Bahrein Leclerc centra il “Grande Slam”: pole position, primo posto e giro più veloce, con una Ferrari affidabile e bellissima, capace di portare sul podio anche Carlos Sainz, nonostante un fine settimana complicato per lui. Segnali orribili sul fronte Red Bull, con Verstappen e Perez che trovano lo “zero” fermando le monoposto a pochi chilometri dalla bandiera a scacchi e denotando problemi di affidabilità non pronosticabili alla vigilia.

Le peggiori Mercedes degli ultimi anni si ritrovano, inaspettatamente, terza e quarta, limitando i danni e restando aggrappate a un Mondiale da possibile protagonista, nonostante il “budget cap” tolga loro il vantaggio di spendere e spandere senza limiti per lo sviluppo delle monoposto.

La notizia, però, è a tinte rosso Ferrari.

La scuderia di Maranello “è” la Formula 1, è parte fondamentale di questo circo fatto di motori, sviluppo e alta tecnologia; e ai piedi di quel podio, in fondo, sorridono tutti, dentro e fuori il team guidato da Mattia Binotto.

Sorridono perché una Ferrari competitiva aiuta a rendere meno noioso quel rosario di Gran Premi che ritrova finalmente il pubblico e il fattore umano, grazie a monoposto che hanno sempre più bisogno di un pilota capace di portarle al massimo.

E attira investitori e visibilità.

Risuona l’inno di Mameli e il Mondiale ritrova una protagonista, anzi due.

Sarà battaglia, fino alla fine, ne siamo certi; ma sapere che a combattere ci saranno di nuovo due superman con il cavallino rampante marchiato a fuoco sulla pelle, in un solo istante fa ritornare la voglia, parafrasando il Maestro Battiato, di “vivere ad alta velocità”.

I Dragoni tinti d’Azzurro

L’Italia interrompe la “striscia infame” di sconfitte nel Sei Nazioni e lo fa giocando un partita magistrale e vincendo dove non aveva MAI vinto, in Galles.
Difesa, dominio sul punto d’incontro, ottima touche, disciplina, precisione dalla piazzola e il “crack” Capuozzo.

Il paradigma di questo cambio di passo è proprio questo mingherlino con il fisico del calabrone che non sa di non saper volare e lo fa lo stesso.

Dopo anni passati a costruire fisici bionici e armadi a quattro ante tutto muscoli, scopriamo che si può vincere anche con l’estro, con la fantasia, con l’agilità dell’estremo che risolve la partita a un minuto dalla fine.

Adesso dite pure che non conta nulla o che ci hanno fatto vincere, dimostrando di non avere idea di cosa sia il rugby e quali leggi lo governino.

C’è ancora tanto da lavorare, ma tutti quelli che ci volevano a giocare con Romania e Georgia, adesso facciano un giro su se stessi e tornino a parlare di altro.


Bravi tutti oggi, adesso azzerare, placcare e ripartire.
Anche contando su una grande under 20 e con la consapevolezza di aver recuperato un po’ di credibilità a livello internazionale; perché non si vince al Millennium, non si vince a Cardiff con un movimento morto e senza futuro.

Piantiamo, con orgoglio, un seme nei verdi campi dei Maestri gallesi e brindiamo con questi ragazzi che hanno risvegliato in tutti noi l’orgoglio di tifare Italia.

Due grandi cuori (azzurri) nella pallavolo

Dopo le Donne, anche gli Uomini centrano il titolo continentale.

È valanga azzurra.

Al quinto set, come tutti i thriller che si rispettino. Contro la Slovenia che ha liquidato i favoriti padroni di casa della Polonia.

Con una squadra consapevolmente imbottita di giovani e giovanissimi, rendendo la vittoria europea ancora più dolce: questa squadra, forgiata nel fuoco dal proprio demiurgo in panca, Fefè De Giorgi, potrebbe aprire un ciclo e batte un colpo tanto inaspettato, quanto emozionante.

L’Italia che vince anche a briscola in un 2021 di platino, riconquista il primato in uno dei tre sport nazionali, la pallavolo: quella che a livello giovanile riempie palazzetti e pomeriggi dei giovani italiani, quella che vinceva tutto, quella dei Bernardi e della generazione di fenomeni.

E siamo anche i primi, nella storia, a vincere l’Europeo sia nel maschile che nel femminile, nella medesima edizione.

E lo fa puntando sugli incoscienti diciannove anni di Michieletto, su qualche quasi sconosciuto pescato dal cilindro, su otto esordienti, otto, sulla forza del collettivo che trova per strada anche il talento cristallino del singolo.

Un’Opera complessa, per solisti e orchestra, che stasera contro la Slovenia diventa un misto fra la Cavalleria Rusticana e la Cavalcata delle Valchirie.

Cinquanta minuti di applausi, una medaglia d’oro che brilla, un Tricolore che sale sul pennone più alto.

Fermate qui il 2021 dello sport.

Non vogliamo scendere.

Postcards from Tokyo #15

4×100, Italia d’Oro e d’Alta Velocità

La solidità di Patta, l’esplosività di Jacobs, la curva di Desalu, il talento lanciato di Tortu: shakerare nella notte giapponese, sul bancone dorato delle Olimpiadi più incredibili della storia, e il cocktail è micidiale.

Il quinto Oro nell’Atletica è il termometro del movimento, la cartina al tornasole, l’assicurazione sul futuro glorioso della velocità azzurra e dell’Atletica.

Nell’anno del lockdown, mentre gli statunitensi lottavano contro l’azzeramento delle sponsorizzazioni e la crisi dei talenti, alle nostre latitudini si è lavorato a testa bassa, puntando sui successi a livello giovanile della nostra atletica e sulla valorizzazione di gente come Jacobs e Tamberi, sulla maturità agonistica dei marciatori, sull’entusiasmo di una Nazionale giovane.

E forte.

La 4×100 che mette il muso davanti a tutti è da “orgasmo” sportivo, quanto e come i 100 metri di Marcell, con quella sfrontata dimostrazione di forza e di geometrica potenza: quattro cambi quasi perfetti e quella frazione lanciata dell’enfant prodige deluso, ma concentrato proprio sulla staffetta, magnifica ossessione.

Battuto l’inglese, sul filo di lana, ai rigori, tutti gli altri lontanissimi, ad osservare impotenti le terga del quartetto veloce più bello del mondo, con il Tricolore moltiplicato per quattro a sventolare ancora sul pennone di questi Giochi, fra un Inno di Mameli e l’altro a ricordarci che questo è il decimo squillo, il quinto nell’Atletica.

È bellissima, e dolcissima, la notte azzurra di Tokyo, nell’Olimpiade dei record, nella quale tradiscono solo gli sport di squadra, tranne una: la storica 4×100 metri piani di Patta, Jacobs, Desalu e Tortu.

Postcards from Tokyo #13

Antonella, Oro di Puglia

Dopo Stano, un’altra faticatrice nata e cresciuta nel tacco dello Stivale: è la pugliese Antonella Palmisano, atleta trentenne che ha dominato la venti chilometri di Marcia e centrato l’ennesimo oro della incredibile spedizione azzurra dell’Atletica.

Stesso allenatore di Stano, stessa infanzia condita con l’olio buono e piccante di Puglia, stessa maturità agonistica a schiantare avversari lasciati lontani, senza la necessità di “sporcare” la tecnica di marcia per andare più forte.

Guardi in faccia Antonella e ti vengono in mente Maurizio Damilano, Abdon Pamich, Sandro Bellucci, Annarita Sidoti, Giuliana Salce, Ileana Salvador, Elisa Rigaudo, Eleonora Anna Giorgi, Giorgio Rubino, Ivano Brugnetti, Michele Didoni, Giovanni De Benedictis.

E forse dimentichiamo qualcuno.

La marcia, insomma, quel mondo incredibile nel quale la fatica non è tutto, perché bisogna anche dimostrare perfezione nel gesto atletico e doti strategiche in gare, spesso, ad eliminazione.

La marcia generosa, praticata da gente generosa, per una Italia dell’Atletica che ha sbancato Tokyo, contro ogni pronostico, ben al di là di ogni previsione.

Oggi sul gradino più alto c’è la marciatrice di Mottola, la ragazza con il fiore portafortuna in testa, cucito dalla madre, per far capire al mondo che non sappiamo solo soffrire, ma anche vincere, tanto e bene.

Postcards from Tokyo #12

Stano, in Marcia verso l’Oro

Neanche gli aruspici più ottimisti avrebbero letto i segnali provenienti dalla Regina dei Giochi, così avara di soddisfazioni nelle ultime edizioni e in crisi nerissima di risultati.

Dopo la pista, con i sigilli di Jacobs e Tamberi, è la strada a dare un’altra soddisfazione all’Italia, con il passo di marcia del ventinovenne di Palo del Colle, Massimo Stano.

Tacco e punta devastanti, dal primo all’ultimo chilometro, a sfiancare la resistenza dei due Samurai, Ikeda e Yamanishi, e testare la propria, con una grandissima attenzione alla tecnica di marcia.

Un’azione che non lascia scampo agli avversari e che proietta Massimo lassù, su quel gradino del podio occupato nella storia da Maurizio Damilano, trentun’anni dopo Mosca ‘80.

Risorge la Marcia, risorge l’Atletica, risorge l’Italia dello sport, nonostante le delusioni provenienti dagli sport di squadra, grazie ad atleti abituati a soffrire in silenzio macinando chilometri o nuotando per ore, da soli, con i sogni nel cassetto a fare loro compagnia.

Sono loro i simboli di questa avventura olimpica, nella quale è il movimento olimpico ad uscire vincitore molto più che le foto di gruppo patinate degli ex squadroni di invincibili.

Vi vogliamo così.

Come Massimo Stano, da Palo del Colle, marciatore.