Il paradiso (non) può attendere.

L’Italia del rugby alla pari coi maestri francesi.

A un passo dal toccare il cielo con un dito.

Anzi, a una meta da una vittoria che sarebbe stata persino meritata contro i “galletti” francesi, una delle Nazionali più forti del mondo e candidata alla vittoria nella prossima rassegna iridata.

Dopo la sbornia dei test-match tutti aspettavano al varco gli uomini di Crowley, per capire se i progressi visti fossero la conferma di una mentalità differente e di una consapevolezza nuova o l’ennesimo fuoco di paglia.

E oggi abbiamo visto tutto: due errori di Varney, costati carissimi, assorbiti dalla squadra, brava a ripartire subito con una prestazione corale che dal minuto venticinque del primo tempo è apparsa a tratti straripante, soprattutto se parametrata alla forza e all’esperienza degli avversari.

Precisi sui punti d’incontro e bravi ad esplorare gli spazi, abbiamo un po’ sofferto la fisicità francese, oltre alla loro maggiore dimestichezza nel gestire i momenti cruciali delle partite.

Un secondo tempo punto a punto, con un finale vietato ai deboli di cuore, in quei minuti che in passato ci “regalavano” il crollo fisico degli Azzurri.

E invece abbiamo finito lì, sui cinque metri, a pochi centimetri dalla definitiva consacrazione al livello top del rugby mondiale, centrando anche il punto di bonus.

Ancora qualche ritocco, maggiore precisione e una mediana meno “svagata” e questa Italia, come successo oggi contro i transalpini, potrà giocarsela per vincere.

Il paradiso rugbistico è qui, finalmente a portata di ovale.

I Dragoni tinti d’Azzurro

L’Italia interrompe la “striscia infame” di sconfitte nel Sei Nazioni e lo fa giocando un partita magistrale e vincendo dove non aveva MAI vinto, in Galles.
Difesa, dominio sul punto d’incontro, ottima touche, disciplina, precisione dalla piazzola e il “crack” Capuozzo.

Il paradigma di questo cambio di passo è proprio questo mingherlino con il fisico del calabrone che non sa di non saper volare e lo fa lo stesso.

Dopo anni passati a costruire fisici bionici e armadi a quattro ante tutto muscoli, scopriamo che si può vincere anche con l’estro, con la fantasia, con l’agilità dell’estremo che risolve la partita a un minuto dalla fine.

Adesso dite pure che non conta nulla o che ci hanno fatto vincere, dimostrando di non avere idea di cosa sia il rugby e quali leggi lo governino.

C’è ancora tanto da lavorare, ma tutti quelli che ci volevano a giocare con Romania e Georgia, adesso facciano un giro su se stessi e tornino a parlare di altro.


Bravi tutti oggi, adesso azzerare, placcare e ripartire.
Anche contando su una grande under 20 e con la consapevolezza di aver recuperato un po’ di credibilità a livello internazionale; perché non si vince al Millennium, non si vince a Cardiff con un movimento morto e senza futuro.

Piantiamo, con orgoglio, un seme nei verdi campi dei Maestri gallesi e brindiamo con questi ragazzi che hanno risvegliato in tutti noi l’orgoglio di tifare Italia.

Benetton Treviso sul tetto del mondo

Ci sono giorni che sono destinati a restare nella storia di uno sport. Giorni che ripagano di amarezze, delusioni, botte (tante) prese in campo e quelle che forse fanno più male che arrivano dall’esterno di un movimento rugbystico italiano che negli ultimi anni ha raccolto solo delusioni.

Il 19 giugno 2021 sarà uno di questi giorni per il Benetton Treviso e per il rugby italiano: salire sul tetto del mondo con la vittoria della Rainbow Cup Pro14. I Leoni hanno annichilito, grazie ad una partita quasi perfetta i Bulls sudafricani, arrivati in Italia con il favore del pronostico ma di fatto annichiliti dal gioco, dal carattere e dal coraggio dei biancoverdi di coach Kieran Crowley. Il tecnico neozelandese chiude il suo ciclo trevigiano nel miglior modo possibile, alzando il primo trofeo dell’era «celtica» del Benetton e consegnando alle mani di Marco Bortolami una squadra che ora sa come si vince. Cinque le mete realizzate che portano la firma di Ioane, Els (meta dell’ex), Lamaro, Padovani più una meta tecnica allo scadere del primo tempo.

La portata di questa vittoria è storica; basti pensare che mai un club italiano si era spinto fino a questo punto, mai nessuna squadra aveva mai vinto un titolo così importante a livello internazionale. Giusto merito ad una famiglia, i Benetton, che nel rugby hanno investito, creduto e alla fine vinto. Null’altro da dire, se non bravi, bene, bis. Il rugby italiano ha fame di vittorie.

Carlo Galati

Il rugby rosa che domina

Forse sembrerà strano al grande pubblico, a chi non conosce a fondo questo sport e le sue dinamiche eppure esiste un rugby azzurro vincente, che non ha paura, dominante tecnicamente e fisicamente. Un rugby che non si arrocca dietro scuse e giustificazioni, che non ha pagato un (non) lavoro tecnico all’altezza. È la nazionale di rugby femminile, capace di compiere l’impresa di andare a vincere a Glasgow 41-20.

Avete letto bene il punteggio: quarantuno punti. Se pensiamo che i più titolati e mediatica mente più esposti colleghi uomini di punti nello scorso Sei Nazioni, na hanno marcati 55…beh fate un po’ voi.

Un’Italia champagne quella vista in Scozia. Addirittura sette le mete segnate dalla nazionale italiana che domina in lungo e in largo la partita, gestendola per tutti gli ottanta minuti di gioco. Partita di grande qualità soprattutto di Capitan Furlan e Ostuni Minuzzi. Settimana prossima a Parma, sfida all’Irlanda per il terzo posto nel torneo.

Ecco, quando si parla di estromissione dell’Italia dal Sei Nazioni o amenità del genere, bisognerebbe sempre ricordarsi che il torneo non si limita esclusivamente alla sua versione maschile, ma che ha nell’espressione femminile e nell’U20, altre due facce della medaglia che sorridono all’Italia. In buona sostanza, bisognerebbe parlare con cognizione di causa perché sarebbe insensato, nonché fortemente ingiusti nei confronti di queste ragazze che tengono alto il valore del nostro rugby. Con buona pace dei commentatori di passaggio bravi a pontificare e ahinoi prestati alla palla ovale solo per qualche weekend. Avanti ragazze.

Carlo Galati

La lunga notte del rugby italiano

Cinque partite, cinque sconfitte. Ennesimo cucchiaio di legno, l’undicesimo dal 2000 ad oggi e peggior sei nazioni di sempre, in quanto a punti incassati. Ci sarebbe da piangere, ed infatti l’Italia rugbistica piange. Lacrime amare.

Ne potremmo citare altre di statistiche negative, tutte con un unico filo conduttore: dall’ultima vittoria italiana nel Sei Nazioni, anno di grazia 2015, questi dati sono tutti peggiorati, segnale inequivocabile di un declino del nostro movimento rispetto a tutti gli altri. E per anni ci siamo cullati su discorsi legati più al conservatorismo immobile che sul guardare in faccia la realtà, adottare misure e provare a cambiare.

E’ vero, il rugby europeo dopo l’Italia è (per nostra fortuna) ben lontano dagli standard delle altre cinque del torneo. Probabilmente continueremo a battere la Georgia, la Russia, il Portogallo e tante altre squadre europee. Ma è sempre un guardarsi indietro, mai avanti.

Placcaggi sbagliati, una costante. Tecnica di base, molto spesso latente. Solo facendo riferimento alla gara con la Scozia, come è possibile sbagliare per ben due volte il calcio di inizio regalando una mischia a centrocampo? Com’è possibile subire costantemente la pressione offensiva, senza saper mai rialzare la testa? E ancora: è possibile in una situazione di emergenza placcare un giocatore e non accompagnarlo al suolo, dando ancor di più un handicap alla propria squadra già in difficoltà?

E questi sono soltanto dei piccoli spunti sul tema che è ovviamente, molto più profondo e molto più complicato da analizzare. Ma non si può buttare tutto, si deve ripartire dalle parole del neo presidente federale Marzio Innocenti che ha il compito immane di risollevare una situazione drammatica, facendo sì che si possa tornare a sorridere parlando di rugby italiano. D’altronde, scivolando verso non si può far altro che risalire. La notte è buia, la speranza è di vedere un barlume in lontananza.

Carlo Galati

Lascia Dan Carter, la Supernova del rugby mondiale

È probabile che vi stiate chiedendo chi sia questo omone tutto nero con la maglia numero dieci.

E se ve lo state chiedendo vuol dire che il rugby non è mai stato il vostro sport, perché Dan Carter, trentottenne leggenda della palla ovale, sta a questa disciplina come Maradona al calcio, Nureyev alla danza, Von Karajan alla direzione d’orchestra.

Un mito con il Dieci inciso sulla schiena, come un tatuaggio maori, mediano d’apertura paradigmatico a livello mondiale, preciso, forte e tecnicamente pulitissimo, come e più degli straordinari interpreti di questo ruolo nella storia dei guerrieri in maglia tutta nera.

Mancino di rara precisione, fra palloni schiacciati in meta e piazzati al centro dei pali ha collezionato 1598 punti, vinto due Mondiali e messo il sigillo sui titoli continentali in tre Nazioni diverse: Nuova Zelanda, naturalmente, Francia e Giappone, buen retiro di fine carriera, prima del ritorno in Patria.

Una leggenda nella leggenda, in una squadra di marziani nella quale per emergere e indossare il mantello dell’immortalità bisogna davvero possedere la pietra filosofale.

E Dan l’aveva, trasformando in ovali d’oro ogni percussione dei portatori di palla, imbeccando i Centri, le Ali e persino qualche Pilone, perché nello sport del sostegno e dell’avanzamento in sincrono, l’apertura è un metronomo democratico, che non può fare differenza fra l’eleganza dei tre quarti e la rude essenzialità degli avanti.

Carter ha detto basta, alla soglia dei quarant’anni, con l’intento di godersi la famiglia, facendola finita con le nobili botte sul campo e restìo a sedersi in panchina, perché per lui il rugby è stato uno sport totale e totalizzante, e non riesce ad immaginare di allenare senza che questo significhi impegno e dedizione.

Chissà quanto tempo resisterà prima di ricominciare ad insegnare rugby, come è giusto che faccia un professore per vocazione e genetica. Quel che è certo è che nel momento stesso in cui ha svestito la maglia dei Blues, sua ultima squadra dopo l’avventura giapponese, si è trasformato in una Supernova, la più splendente fra le esplosioni stellari della Galassia Ovale.

Good luck, Mister Carter, and good-bye.

I fiori di Scozia

Per comprendere la portata dell’evento forse bisognerebbe partire dalla simbologia che vi sta dietro. Piccoli gesti che rendono sempre una partita non comune quella tra Inghilterra e Scozia. Nella maglia dei bianchi di sua maestà, il logo storico della rosa; nei numeri di maglia degli scozzesi i nomi dei quindici giocatori che, nel 1871, sfidarono proprio i Bianchi al Raeburn Place di Edimburgo nel primo test match internazionale della storia del rugby. Giusto per dare l’idea.

La Storia questa Scozia l’ha riscritta, questa volta a Twickenham, in uno dei templi laici della palla ovale, battendo dopo 38 anni gli inglesi a domicilio: 6-11 il risultato finale. Potremmo richiamare molte metafore, la maggior parte delle quali andrebbero a scomodare William Wallace, identificando una certa grinta e cuore, unito al sano odio verso gli inglesi. Ma non sarebbe corretto; non stavolta. La vittoria scozzese non è solo figlia dell’attitudine al combattimento e a sovrastare l’avversario. Certo, è elemento fondamentale, come sempre; ma questa volta la Scozia ha messo anche altro. Intelligenza rugbystica, gioco al piede usato con la giusta misura, nello spostare il gioco. Mischia solida (Made in Cutitta), tre quarti ficcanti, avanzamento e possesso sicuro. Non solo guerriglia rugby, ma anche tanta qualità.

Il resto è festa. È giusto riconoscimento ad un lavoro che ha dato dei frutti dolcissimi e una Calcutta Cup nella quale rimbomba l’eco delle cornamuse di Edimburgo e i fiori di Scozia fioriscono, nonostante l’inverno.

https://youtu.be/lcGAoADc94I

Carlo Galati

RUGBY: CINQUE ANNI SENZA LOMU.

Sbucò dal televisore come una saetta, una tempesta perfetta, una marea inarrestabile.
‘Bravino’ questo rugbista “tutto nero”, pensammo, impossibile da fermare e monumento alla forza fisica e alla potenza pura: agile come un gatto, abile a muoversi a destra e a sinistra per seminare avversari come birilli, travolgerli, irriderli con l’eleganza di chi non può conoscere ostacoli.
Un gigante, Jonah. Sempre sorridente, un gigante bambino devastante per gli avversari tanto quanto protettivo per i compagni di squadra.
Un gigante quando da malato grave cercò sempre nel rugby, ancora nel rugby, pur fisicamente provato e cambiato, redenzione e conforto: un campione “totale” che non aveva paura di presentarsi sul campo imbolsito e gonfio, perché un rugbista nasce nel fango e nella polvere, lo trovi in mischia a lottare e non ha tempo di pensare a cipria e cerone.
Neppure quando hai un appuntamento non richiesto con la Grande Consolatrice.
Jonah Lomu è stato lo spartiacque fra due concezioni di rugby e la sua sagoma da guerriero è rimasta scolpita lì, indelebile, su ogni campo che ha calcato.
Impossibile da dimenticare, impossibile da placcare.
Per lui la Nuova Zelanda intonò cinque anni fa l’ultima “haka”: ma ogni rugbista, ogni semplice appassionato, ogni uomo di sport sa che ci sono storie che non smetteranno mai di essere raccontate.
“Ka mate, ka mate!” “Ka ora, ka ora! Tenei te tangata puhuruhuru nana nei i tiki mai whakawhiti te ra!”
(Io muoio, io muoio!” “Io vivo! Io vivo! Questo è l’uomo peloso che ha persuaso il Sole e l’ha convinto a splendere di nuovo!”)

Paolo Di Caro