Poeta, giornalista, gentiluomo.

Gianni Clerici, aedo del tennis e dello sport, è stato molto più che un giornalista.

Trascorsa qualche ora dalla morte del novantunenne giornalista e scrittore comasco, le immagini convulse e meravigliose della sua carriera hanno riempito pagine di giornale e televisioni, ribaltate sui social dal piglio nostalgico di chi ha vissuto un’altra era del giornalismo, un’altra era della televisione, un’altra era del tratto di penna che accompagna la voce e la completa, fino a diventare immagine.

Clerici non è stato il Gianni Brera del tennis; non c’è alcun bicchiere di ottimo vino o un video graffiato in 8 millimetri a rendere inmortale una icona novecentesca; semmai ci ricorderemo in uk fermo immagine di un istrionico vecchietto capace di cavalcare la modernità, prestando voce e immagine alla tempesta perfetta della telecronaca televisiva.

Lui e Rino Tommasi non sono preistoria da teche, ma milieu professionale al quale attingere per capire come si possa raccontare una pallina che cambia sempre campo con garbo, eleganza, ironia, sapiente dosaggio di competenza assoluta applicata al vivere ardendo dell’ex tubo catodico, lo stesso che tutto riduce in cenere alla velocità della luce.

Racconto, parole, immagini, passione, sferzante ironia.

Clerici vincerebbe anche domani la sfida dell’on demand, senza aggrapparsi ai tre quarti di nobiltà del proprio pedigree.

Le fragole di Wimbledon non avranno più lo stesso rosso intenso e il bianco obbligatorio delle divise dei tennisti e delle tenniste impallidirebbe ancora senza ascoltare più la voce del tennis; quella voce che all’inizio non piaceva al Berlusca, ma resterà lì, a fare audience e le fortune del tennis raccontato, con lo slang di Rino, l’Americano, e le dotte e infinite divagazioni di Gianni.

Un argomentare che non stancava mai, neanche di fronte a mille scambi da fondo campo fra Gattone Mecir e Mats Wilander, tanto l’eloquio forbito incontrava la simpatia irresistibile e la disarmante bravura.

“Il più grande conoscitore di tennis del mondo”, autore di tomi che resteranno imprescindibili per chi, a capo chino, vorrà orientarsi fra storia, costume e leggenda della racchetta: da “500 anni di tennis” fino alla storia di Lenglen, “Divina”, passando per “Il tennis facile” e “Il tennis nell’arte”.

Il giornalista gentiluomo ha traghettato lo sport da Circoli nell’immaginario popolare, difendendone la nobiltà e l’alterità senza supponenza.

Avrebbe voluto essere accarezzato da McEnroe, ha descritto come nessuno doti, vizi e virtù di Nastase, Borg, McEnroe, Panatta, Lendl, fino ai giovani Nadal e Federer; ha cantato le sfide sull’erba di Martina Navratilova e Chris Evert, ha segnato un’epoca, forse due, più probabilmente tre.

Immaginando il tennis come la Divina Commedia, Clerici sarebbe stato Virgilio, capace lungo novantuno lunghi anni, fra inferni, purgatori e paradisi della quotidianità, di diventare abbastanza adulto da poter fare da guida a chiunque volesse capirci qualcosa di tennis.

La partita è finita, al quinto set, come doveva finire.

In gloria.

Gioco, partita, incontro, Clerici.

Djoko, partita, incontro

Novak Djokovic lascia l’Australia e gli Australian Open a seguito di un provvedimento dei giudici della Corte Federale, a causa del suo mancato vaccino e del pasticcio brutto che lo ha trasformato in una icona no-vax, forse persino oltre le sue iniziali intenzioni.

In quella “bolla” nella quale vivono i tennisti, ancora più bolla per il numero uno con tanti zeri nel conto in banca e uno staff pagato anche per pensare al suo posto, nessuno si era preoccupato della legge australiana.

Neppure gli organizzatori degli Open, convinti che nessuno potesse negare un posticino nella terra dei canguri al testimonial del tennis degli dèi.

Hanno fatto male i conti. Tutti.

Li hanno fatti talmente male da contribuire con una comunicazione fra il demenziale, il grottesco e il criminale, a intaccare l’immagine di Nole, finito a fare l’immaginetta per la minoranza anti-vaccinista mondiale, per giunta quella dell’ala complottista. La malattia, vera o presunta, le immagini del presunto malato a un evento, i certificati, la presunzione di poter riscrivere le regole in una Nazione che sui confini nazionali non ha mai scherzato: tutto questo non è da numero uno e lo sappiamo.

È già tanto che questa partita sia arrivata al quinto set, ma la vittoria di Nole avrebbe gettato nel ridicolo le autorità australiane, improvvidamente forti con i deboli (tutti coloro i quali si presentano alla frontiera senza i titoli per entrare) e debole con i forti (il tennista multimiliardario).

Ne avremmo fatto volentieri a meno.

L’unica divinità che vorremmo rivedere in campo è il Nole tennista, non la fotocopia di Gesù di Nazareth descritta dal pittoresco genitore serbo in conferenza stampa o l’osannato mentore di qualche “scappato di casa” convinto che col vaccino moriremo tutti in pochi mesi, cadendo come mosche.

E se il Governo vuole fare davvero la cosa giusta, solleciti la propria Federerazione tennis a gestire meglio situazioni potenzialmente a rischio deflagrazione: in fondo se Nole ha preso quell’aereo, pur con tutte le sue colpe, è anche perché qualcuno gli aveva detto di prenderlo.

Gioco, partita, incontro.

Jannik, così no!

Da queste pagine abbiamo sempre sostenuto e alle volte difeso, Jannik Sinner, tutelandone la crescita sportiva e umana, infondendo speranza e pazienza ai nostri pochi ma affezionati lettori e non solo. E non lo abbiamo fatto per semplice partigianeria, ma perché reputiamo che lui, insieme ad altri azzurri, rappresenti il glorioso futuro del tennis italiano. Ma proprio per questi motivi, oggi siamo delusi dalla sua scelta di non partecipare alle Olimpiadi.

Non ritenere importante questo evento o considerarlo un intoppo nel proprio percorso di crescita è un errore e un autogol clamoroso. In primis perché non esiste manifestazione sportiva nella carriera di uno sportivo, che possa essere paragonata all’evento olimpico, un evento che se sei fortunato riesci a disputare 3 forse 4 volte in carriera. Non credete? Beh, ditelo a Djokovic che nonostante abbia vinto tutto, a 34 anni vola a Tokyo per giocarsi l’ultima occasione di vincere l’oro olimpico, orgogliosissimo di rappresentare il proprio paese. Ditelo a Larissa Iapichino che, quasi coetanea di Sinner, per volontà del destino, si è infortunata all’ultimo salto dell’ultima gara prima delle Olimpiadi. Chiedete a lei; chiedetele se non farebbe carte false per andare a disputare la competizione più importante della sua vita.

Ecco, rinunciare a questo grande onore, non per un oggettivo impedimento fisico, è un errore d’immagine enorme. I molto o pochi che siano, che non credono in lui, avranno una comoda palla da spingere nel campo avversario per segnare un 15 che si sarebbe potuto evitare. Ma non gettiamo la croce solo addosso al ragazzo, non sarebbe giusto. Chi ne ha la paternità tennistica ha una grande responsabilità tennistica e non solo. Sinner è un patrimonio italiano e tutti, soprattutto chi lo consiglia, hanno l’obbligo di tutelarlo sotto ogni punto di vista. Missione che, questa volta, è clamorosamente fallita. Dispiace.

Carlo Galati

(V)Erba volant, victoriae manent

È diventata ormai una piacevole abitudine quella dei tennisti italiani negli Slam; per il nono slam di fila, infatti, almeno un rappresentante del tennis azzurro raggiunge gli ottavi (l’ultimo senza: Australia Open del 2019). La famosa seconda settimana che prima era un miraggio per i nostri atleti adesso sta diventando l’obiettivo minimo.

Accade per di più che gli italiani agli ottavi, a Wimbledon, siano due, Matteo Berrettini e Lorenzo Sonego. Per intenderci, l’ultima volta in cui ciò accadde sui prati verdi di Londra, era il 1955, grazie a Pietrangeli e Merlo. Insomma, non proprio l’altro ieri.

Due partite fotocopie, vinte con la stessa erbivora autorità, dimostrando ancora una volta di essere i più completi tennisti italiani in circolazione, capaci di vincere e raggiungere finali su più superfici, giocando un tennis che si sposa bene con le differenti condizioni, mostrando un carattere e una determinazione che nel tennis rappresenta un valore aggiunto fondamentale.

Matteo e Lorenzo sono la bella Italia del tennis, sui campi dove si conquistano i galloni di nobiltà tennistica. Campi che hanno fatto la storia e che permettono ai giocatori meritevoli di entrarci, in quella storia. Nello specifico, una storia italiana ancora tutta da scrivere.

Carlo Galati

L’erba di Matteo è sempre più verde

“È solo servizio e dritto”.

Anche Ivanisevic lo era, se dovessimo limitarci a dare credito agli innumerevoli soloni del tennis da divano spuntati fuori come i funghi alle prime vittorie dei ragazzi terribili d’Italia.

Matteo, però, non appartiene a questa categoria. Il servizio che funziona conferisce solidità al suo gioco, il dritto è devastante, ancor di più con le traiettorie rasoterra disegnate dai ciuffi d’erba idel Queen’s; eppure anche il rovescio di Matteo comincia a funzionare, sotto il peso della ripetitività tattica dei suoi avversari, che lo “allenano” sul colpo potenzialmente più debole.

Matteo ha brucato l’erba dal primo turno, aggrappandosi al servizio nei momenti difficili e studiando la superficie, come fanno i grandi quando si avvicinano a Wimbledon.

La testa di serie numero 1 del torneo ha rispettato i pronostici, arrivando in finale senza aver perso un set.

Alla faccia dei detrattori, dei gufi e del tafazzismo italico, sempre pronto a farsi del male quando il tricolore sventola più alto di tutti.

Adesso la finale, contro Norrie, uno che sull’erba vale una classifica decisamente migliore del suo #41.

Andiamo, Matteo: servizio, dritto, punto.

Fino a Wimbledon, passando per il Queen’s.

Musetti e Sinner, gli intoccabili

Se anche uno solo dei nostri pochi ma affezionatissimi lettori possa solo pensare che il termine di paragone per Sinner e Musetti siano le carriere di Nadal, Federer e Djokovic, a lui diciamo: no. Immaginare anche solo per un istante che il tennis sia quel qualcosa di sovrannaturale che questi tre mostri dello sport hanno finora mostrato, allora esiste un problema; ma questo lo sapevamo. A lui, a loro, dico che il tennis è stato altro fino al loro avvento, un avvento comunque rappresenta qualcosa di IRRIPETIBILE non soltanto nel tennis ma forse nello sport in generale.

Bene, chiarito questo concetto, possiamo ben dire ad alta voce che sì, i due giovanotti del tennis azzurro hanno un futuro radioso davanti a loro. Avrebbe potuto fare di più Jannik nella partita con Rafa? Forse sì, forse no. Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che per due anni consecutivi Sinner ha sfidato il Re nel proprio regno incontrastato, perdendo sì, come tutti gli altri per 104 volte in questo torneo, ma uscendo dal campo accompagnato dall’applauso del proprio sfidante. Pur riconoscendo al maiorchino una sportività innata, non ricordiamo tante altre occasioni in cui questo sia accaduto. Eppure è successo.

E Musetti? Beh che dire?! Ha fatto letteralmente impazzire il numero uno al mondo per quasi due ore: mai due palle simili, colpi sempre al limite, variazioni in top e in back, lotta, sudore e corsa. In poche parole il manuale del perfetto terraiolo. Poi tutti a chiedersi, ma cosa è successo? E’ successo che Djokovic è il numero uno al mondo, è successo che a 19 anni e giocando da una vita (9 anni circa…!!!) match due su tre, alla prima esperienza in un ottavo di finale in uno Slam, vincendo due set al tie break sul Philippe Chatrier, la carica nervosa possa esaurirsi e con esso il fisico. Capita. Per chi vince e chi perde in questi casi si usa una sola parola: esperienza. Tanta per chi vince, poca per chi perde. Ah, dimenticavo: anche in questo caso applausi di Nole al giovane sfidante. Anche in questo caso non ricordiamo tante altre volte in cui sia successo.

Cosa voglio dire? Che da queste partite bisogna portarsi a casa il meglio e metterlo a frutto per il futuro, lavorando lavorando e lavorando ancora. Perché è innegabile che degli errori ci siano ma, chi non ne ha compiuti a 19 anni? Di sicuro non sul centrale del Roland Garros.

Carlo Galati

Il giorno della marmotta di Sonego

Senza paura, senza timore, senza sentire la stanchezza e la fatica di due match giocati in un giorno. Prima la vittoria nei quarti di finale con Rublev, al terzo set, dopo oltre due ore e mezzo di partita, poi, senza accorgersene, il quasi miracolo con Djokovic, numero uno incontrastato del circuito. Partite durissime che hanno esaltato le caratteristiche del ragazzone di Torino, una su tutte: mai un passo indietro. Sempre all’attacco, attaccato al match come solo i più grandi sanno fare. Partite già perse, soprattutto quella con Djokovic, sono state in bilico fino alla fine. Un dato esplicativo: quasi un’ora dal primo match point del serbo al secondo, risultato poi decisivo.

E’ una splendida abitudine quella che ormai il tennis maschile italiano sta regalando ai tanti appassionati, abituati per anni ad accontentarsi di un secondo o terzo turno nei 1000 e di una seconda settimana agli Slam. Pane e cipolle prima, tavolo stellato adesso. E se per Berrettini, per Sinner, è ormai una bella e sana abitudine, giustamente esaltati da chi il tennis lo vive e lo racconta, per Sonego invece i riflettori non sono mai troppi e troppo puntati. Il perché è un mistero che appartiene ad aspetti che ci sono quantomeno sconosciuti, ma che sono in assoluta controtendenza con il personaggio in and off the court.

Sonego tradisce eleganza sabauda nelle sue smorzate e tenacia piemontese nel non mollare mai nessun punto, restando aggrappato a partite che sembrano perse, andate via senza colpo ferire. La sua più grande qualità è proprio questa. Non sarà dotato di un colpo particolare che lo rende unico o quanto meno caratterizzante nel proprio tennis, eppure nel circuito non ricordiamo nessuno con questa indomita voglia di continuare a giocare anche quando le cose non sembrano girare per il verso giusto.

Ricorderà a lungo questo giorno Lorenzo, il giorno che ha vissuto tante volte, tante quante le difficoltà che ha superato, i vincenti che ha tirato, le palle break salvate e quelle convertite. Ricorderà di esser stato in campo per oltre cinque ore contro avversari sulla carta più forti di lui ma che lui ha battuto e che da cui è stato battuto, ma con l’onore delle armi concesso dal numero 1 al mondo, mai, ad un certo punto del match, così traballante dall’altro del suo trono. Merito del grande cuore di Lorenzo che merita la giusta ribalta e che continuerà a regalare gioie allo sport e al tennis italiano, come ha fatto oggi. Il suo giorno della marmotta, da vivere e rivivere. Magari con un finale diverso.

Carlo Galati

Il sorriso di Sinner, a Miami per la gloria

Un sorriso e ho visto la mia fine sul tuo viso.

È quello che deve aver pensato Bautista Agut in un ultimo game contro Sinner nel quale l’Italiano di Bolzano lo ha annichilito, chiudendo a zero il gioco decisivo con l’avversario al servizio.

Quattro vincenti micidiali, a velocità supersonica, con la maturità di un trentenne, dal basso dei suoi diciannove anni, per chiudere un match partito male e finito con la stesa del tappeto rosso.

E una finale a Miami, in un Master 1000, con un tennis moderno e gioiosamente violento, che migliora di partita in partita, adattandosi alle caratteristiche degli avversari.

Sorride Jannik e questa è la notizia.

Umano, troppo umano, parafrasando Nietzsche, anche dopo l’ennesima partita fuori giri.

Sorride, soffre, lotta, si arrabbia, come un diciannovenne, come un campione, come solo un predestinato sa fare con tanta geometrica potenza.

Il solido Bautista gioca bene, variando il gioco e mettendoci dosi massicce di esperienza, ma Sinner resta lì, aggrappato al match anche quando dall’altra parte della rete il professor Bautista sale in cattedra provando a insegnare tennis.

Nulla di fatto.

Jannik mette il servizio quando serve, in un ultimo set vinto in rimonta e paradigma di un cervello tennistico da studiare in laboratorio.

È giovane Sinner, è Italiano, gioca un tennis che somiglia solo a quello di Sinner, un tennis che con un pizzico di fantasia e meno impacci sotto rete potrebbe presto rasentare la perfezione.

Ce lo godiamo mentre sorride, dopo il game perfetto che gli regala la finale dorata sotto il sole di Miami, sapendo che chiunque sarà il suo avversario Jannick non avrà nulla da perdere.

Il tatuaggio sul suo braccio lo ha ideato Bublik, marchiandoglielo a fuoco: “tu non sei umano”.

E invece sì, Jannik: sei umano e sei già nella storia del tennis tricolore.

Per adesso.

La venere nera del tennis

Naomi non scherza. Non lo ha mai fatto. Si è presentata al grande pubblico nel 2018 battendo sua maestà Serena Williams nello Slam di casa a New York; non l’ha solo battuta ma dominata, in tutti gli aspetti del match e anche oltre. Chi ha un buona memoria e sa di tennis, ricorderà sicuramente.

Naomi non scherza. E’ al suo quarto Slam in altrettante finali. Due successi a New York, due a Melbourne dimostrando a tutti di essere la più forte sul cemento. Su questa superficie non ce n’è per nessuno.

Fa sul serio Naomi. Alla sua età solo cinque tenniste avevano più più slam e parliamo di campionesse assolute come la Graff, la Seles, la Evert, la Hingis e…proprio Serena. Ed è a Serena che Naomi guarda ed è da lei che ha imparato i movimenti sul campo, il dritto profondo e arrotato, il servizio potente che non lascia scampo. Ma rispetto a Serena ha qualcosa in più. E’ una tennista che unisce. Difficile trovare per lei detrattori sul campo e fuori dal campo sia per il proprio impegno nel sociale in cause molto importanti, sia per il comportamento finora avuto in campo. Rispettoso, impeccabile, educato, sincero: tutti elementi tipici della cultura giapponese di cui è fiera portabandiera.

E’ però campionessa di tutti. Amata dai tifosi e dagli sponsor che la corteggiano come mai nessuno nel tennis femminile da gran tempo a questa parte. Il tennis femminile, in declino per mancanza di leadership ha bisogno di figure come la sua, forti ma gentili, determinate ma sensibili, implacabili ma rispettose. Ecco perché merita il trionfo e perché merita i giusti riflettori. Semplicemente perché è nata per essere la migliore.

Carlo Galati

Il valore della classifica

Nell’ultimo periodo lo sport mondiale e il tennis di conseguenza, ha vissuto e continua a vivere momenti difficili in cui le poche certezze residue sono messe a dura prova dal contesto complicato in cui si opera. Non sono salve da questa condizione le classifiche, ovvero quel valore oggettivo che sancisce chi sia più bravo sancendo una graduatoria che poi regola e allinea i valori delle singole squadre, dei piloti o dei tennisti.

Nello specifico la classifica ATP del tennis maschile, così come quella femminile, è stata nell’ultimo anno quasi sospesa, restando in un limbo che ha permesso la conservazione automatica dei punti conquistati e una sostanziale non alterazione delle posizioni in classifica. Una decisione dura e difficile ma necessaria. Ma i valori in campo, aldilà dei calcoli matematici, sono rimasti gli stessi?

L’esempio italiano in tal senso è lampante. Numero 1 Berrettini, numero 2 Fognini e non c’è storia per il momento. Basti guardare a cosa è successo all’ATP Cup, basti vedere l’Australian Open. Battendo rispettivamente Katchanov e De Minaur, Matteo e Fabio hanno guadagnato l’accesso agli ottavi di finale. Riportiamo due italiani nella seconda settimana di uno Slam; certo dobbiamo e dovremo abituarci all’idea che, visto il movimento e le eccellenze che questo sport in Italia sta esprimendo, in un futuro prossimo potremmo trasformare lo stupore in meravigliosa consuetudine.

Ma, per ora, i portabandiera del tennis italiano sono ancora quelli che la classifica sancisce come i due migliori azzurri. E non c’è congelamento di punti che tenga; Tsitsipas e Nadal siano avvisati. Certo, la loro classifica è migliore, su questo nessun senza dubbio. Ma quante volte l’eccezione ha confermato la regola?

Carlo Galati